VOCI

Maria Luisa, una donna sulla cinquantina dal volto anonimo in ciascuno dei suoi tratti e delle sue espressioni, si siede, inspira ed espira ritmicamente.
– Signora – comincia il medico in camice bianco che sta ritto alla finestra, lo sguardo perso altrove.
– Signora – ripete, ammorbidendo il tono di voce sin quasi a mutarlo in una carezza compassionevole. Lo specialista si volta e la fissa con sguardo ostinato e triste, Maria Luisa vorrebbe morire.
– Non sappiamo più cosa fare, abbiamo provato di tutto. La terapia di gruppo non funziona dal momento che lei si rifiuta sistematicamente di parlare, cerca persino di strapparsi le flebo. Non posso nasconderle che la situazione si stia realmente facendo drammatica. Le vogliamo tutti bene, ormai è diventata come una figlia sia per i caporeparto, sia per le infermiere, persino per me, che di figli ne ho già due. Sembrerebbe refrattaria ad ogni cura, dal canto mio le consiglierei di cominciare a pensare alle cure in casa, al testamento, sia biologico che non. Lei, signora, ha scelto la clinica migliore che potesse sperare: siamo specialisti in questa tipologia di malattie, eppure – l’uomo prende un profondo respiro, come ad immergersi in un’apnea di abnegazione e freddezza professionale. – Sta morendo, Signora. È il paziente a doversi mettere in discussione per primo, e lei non lo fa. Mi dispiace doverle annunciare questa tragica realtà con tanta freddezza, è una sconfitta per tutti noi, ma vede…-
Maria Luisa chiude gli occhi portandosi il palmo della mano sul viso e la voce del medico si fa ovattata, confusa.
Si concentra per far sparire le parole dell’uomo che ancora le rimbombano nella mente, un monito doloroso e sonante, come campane che rintoccano a lutto.
Riapre gli occhi.
Una donna, anch’essa sulla cinquantina si trova dinnanzi a lei, seduta con le gambe aperte su una sedia in vimini. Sorbisce lentamente un caffè al ginseng, plastificata nei suoi vestiti discinti e nel trucco troppo pesante. Maria Luisa si sente vecchia.
– Guarda che sono tutte cazzate quelle che dicono i medici, amore. La Ali è una tipa tosta, mica si fa tirar giù da una malattia del genere. Secondo me dovresti prenderti una bella vacanza, lasciare quella stronza ad affrontare con le sue mani quella malattia! Devi vivere anche tu, stella! Sei sciupata, hai più rughe di un mese fa. Un minilifting? Conosco un chirurgo estetico che è ma – gi – co! –
La donna sillaba le parole, enfatizzando la formidabilità del suddetto dottore con gesti enfatici delle mani.
– Ti raschia via gli anni di troppo a suon di botox! Io ci vado una volta a settimana. È bravo anche con la lipo. A proposito di ciccia: ieri il Carlo mi ha portato a mangiare il giapponese sai? Non puoi capire, amore, un posto sciccosissimo, tutti giappi gli inservienti. Roba da cinque stelle, entiendes? Comunque, ho mangiato come un bue, delle cose buonissime, ad esempio c’era questo tortino di riso a chissàchecosa.
Il volto di Maria Luisa si contorce, pare esplodere nelle sue rughe e nelle sue paure. Ancora una volta la donna chiude gli occhi sistematicamente, attende che la voce querula e infantile dell’amica si sia dissolta nel mare nero dei suoi pensieri.
Riapre gli occhi.
– Figliola. –
Maria Luisa si trova in ginocchio, il capo coperto da un sottilissimo foulard nero. Non ha idea di come sia finita a confessarsi, proprio lei, che in chiesa non mette piede da due o tre anni come minimo. Ha perso la fede con l’inizio delle sue sventure, si è detta che se un Dio è capace di creare simili barbarie, quello stesso Dio non si sarebbe mai meritato l’amore che gran parte della popolazione gli riserva.
Ed ora è lì, le ginocchia dolenti per il lungo contatto con il legno. Vede il prete in viso: un vecchietto bonario, capelli radi, quel classico sorriso di chi è sicuro ci sia un fine ultimo, un disegno esistenziale. Il sorriso di chi non teme il domani.
– Sono molto felice che tu sia tornata, Maria Luisa. Ti ho vista crescere, maturare, ti ho sposata ed ho battezzato tua figlia, poi sei scomparsa. Ma la pecorella smarrita torna sempre all’ovile, il figliol prodigo zoppica fino a casa. È giusto che, in un momento di tale ansia e angoscia, tu rivolga le tue suppliche a Dio Onnipotente. Egli ti ascolterà, se i tuoi sacrifici saranno equi, il tuo spirito abbastanza temprato. Il Signore ascolta tutti, tutto vede e tutto comprende. –
Il pretino si asciuga il sudore con un fazzoletto ricamato, cucito di stoffa pregiata.
– La vita, come la morte, sono tutti doni del Santissimo. Dobbiamo essere capaci di chinare il capo ed accettare la sorte. Fai parte di un piano, piccola mia, tutti ne siamo inconsciamente avvinti. Il lutto che stai per vivere andrà ad arricchire la schiera di angeli fulgidi e magnifici che canteranno in eterno la gloria del Nostro Signore…-
Insensatezze, le palpebre di Maria Luisa crollano senza che il cervello abbia mandato l’impulso. Vorrebbe essere idrosolubile, essere già anni dopo, aver superato ogni tormento. A Dio importeranno le notti insonni, le ginocchia sbucciate, le lacrime salate?
Apre gli occhi.
Un piatto di pasta volteggia nell’aria e lei vede questo muoversi quasi fosse rallentato, congelato in un tempo che non le appartiene; la donna sorride nel vedere gli spaghetti che si alzano in aria e, molleggiati, compiono piroette ed artificiosi volteggi.
Il tempo riprende a scorrere ed il piatto si schianta contro la parete alle sue spalle, Maria Luisa non si volta.
– Ma che cazzo dici? – La voce dell’uomo che sta in piedi, dall’altro capo del piccolo tavolo in legno la investe come una folata di vento freddo.
– Tu pensi a cucinarmi la cena quando lei è in un letto di ospedale, da sola, che sta morendo come una cagna! Sei una povera stronza, Luisa, non sei più la donna che ho sposato. Sono tre anni che è cominciato questo inferno e non ti ho mai visto versare una lacrima, mai una volta il tuo volto ha tremato! Sei un mostro, Luisa! Quando tutto questo sarà finito chiederò il divorzio, nel frattempo andrò a stare dai miei; non posso sopportare di condividere il letto con una donna già morta dentro. Vedrai come starai bene sola, puttana, t’ingozzerai di pasta e sarai tutta contenta!-
Luisa non si scompone, un sorriso plastico e gelido le deforma le labbra sottili, quasi a diventare un ghigno. Si trasforma in gomma e chiude ancora una volta gli occhi, l’ultima volta.
Alza le palpebre.
Sua figlia è stesa su un letto candido ed immacolato, al centro di un’asettica stanza d’ospedale. Ogni cosa è immobile: le pale del ventilatore girano pigre ed anche gli odori paiono stantii, suddivisi in scie ben distinte. Hanno quasi un colore.
Maria Luisa è seduta al capezzale della ragazza e guarda quel corpo eroso dal dolore agitarsi appena nel sonno: sono tre anni che ha deciso di morire, la piccola Alice. A sedici anni ha scelto di non mangiare più.
Ora di quella ragazza solare che ha imparato a conoscere ed amare non rimane che lo scheletro semovente e perennemente stanco. Tuttavia il volto è rimasto bello, anche se scavato: un piccolo ovale con labbra grandi ed occhi ben disegnati. Peccato per i capelli, che non hanno smesso di cadere, lasciando la ragazza quasi calva.
Maria Luisa rimane immobile, fissando la figlia: non ha mai capito la sua malattia e nessuno ha mai compreso che cosa stesse succedendo in quel corpo fragile. Lei, Maria Luisa Nardi è una donna semplice. Una donna di poche pretese, che avrebbe lasciato alla figlia un futuro sereno, frutto dell’onesto e duro lavoro di una vita. Non è mai stata una persona riflessiva, una sognatrice. Per questo non si è mai risolta su come affrontare quel male oscuro e inconoscibile che i medici chiamano anoressia. Ora Maria Luisa guarda Alice morire e si sente più impotente che mai: né l’amore, né i soldi, né la medicina l’hanno salvata.
La donna guarda la figlia con occhi vacui, si volta per ispezionare la stanza, torna a fissare la ragazza.
Improvvisamente, come un’esplosione inaspettata, sgorgano le lacrime che, per tre anni, erano state metodicamente trattenute. Si mescolano ai gemiti ed ai respiri straziati.
Maria Luisa piange il suo lutto.

Eleonora Casale

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