“Prologo sul Teatro” al Faust di Goethe

Il Faust di Goethe è certamente una delle opere più famose della letteratura di tutti i tempi e più rappresentative della modernità. Un’imponente massa di versi e dialoghi, scene e azioni, quasi impossibile da affrontare sistematicamente e in maniera rigorosa per la quantità di temi trattati e per la sua (apparente) disorganicità e disordine, elemento da tenere a mente per dopo. Altro elemento da tenere a mente è il tempo impiegato per scrivere l’opera: quasi 60 anni, l’intera vita adulta dell’autore. Il mito di Faust nella sua versione popolare accompagna Goethe fin dalla sua infanzia, infatti lo scrittore conoscerà la versione di Christopher Marlowe solo da adulto, e per tutta la vita ne sarà affascinato e quasi ossessionato.

Fin dalla prima giovinezza iniziò a scrivere scene per un dramma che non sapeva se avrebbe mai finito, abbandonandolo più e più volte, riprendendolo altrettante, a volte sollecitato da altri autori, come da Schiller, scrivendo scene della prima parte insieme ad altre della seconda, secondo procedimenti oscuri a chi è escluso dal genio dal poeta. Riuscirà nell’impresa nel 1831, dando alle stampe la versione definitiva del Faust, per morire l’anno dopo. Quell’opera immensa era diventata motore e simulacro della sua stessa vita, lasciandolo un guscio vuoto una volta conclusa. Ma veniamo al Prologo sul Teatro.

L’opera si apre con una dedica seguita da due prologhi, che anticipano la prima vera scena del dramma. Queste tre scene hanno poco in comune fra di loro, diverse ambientazioni, diversi personaggi, sembrano a malapena far parte della stessa opera. Il Prologo sul Teatro si avvale di tre personaggi: il Direttore, il Poeta e il Faceto, che si apprestano a mettere in scena una rappresentazione. Questo prologo si configura immediatamente come una breve apologia allegorica dell’opera stessa contenente forse una dichiarazione di poetica fra le righe, da cercare fra le parole di tutti i personaggi.

Il Direttore, ovviamente avido di guadagno, invita il Poeta a dargli un copione che possa far affluire molte persone allo spettacolo, vuole vedere “la fiumana della folla far ressa alla (nostra) baracca farsi largo a gomitate, rompersi quasi il collo per un biglietto“. Il Direttore si presenta subito come disinteressato al valore artistico dell’opera, potremmo immaginarlo come un ignorantone in cerca solo di soldi facili, a discapito della qualità e dei desideri del Poeta. Il Poeta si oppone subito alle parole dell’impresario: “non mi parlare di quella turba variopinta alla vista della quale l’animo ci vien meno“. Eccolo il nostro Poeta, disgustato dalla massa che gli dà probabilmente da mangiare, che vuole rifugiarsi in un angolo di cielo, lontano da tutti, a fare la sua poesia. Contro i discorsi sui posteri del Poeta si scaglia il Faceto, garante del divertimento e dell’ingenuità, dell’immediato piacere anche nel godimento artistico: “posto ch’io mi occupassi del mondo di poi, chi procurerebbe divertimenti a quelli del nostro tempo?“. Il Faceto prova a convincere il Poeta a lasciarsi andare all’ispirazione più pura e immediata, e qui non possiamo non vedere una sottile autocritica dell’autore che impiegò una vita intera a scrivere l’opera, probabilmente chetando o rifiutando più volte quell’istinto artistico che il Faceto difende.

Il Direttore tenta di sollevare il Poeta dall’impegno di un’opera troppo difficile, dalla complessa organicità, “che vi giova presentare un tutto ben composto? Il pubblico sceglierà a caso qua e là“. Dietro una critica al teatro contemporaneo è presente un’apologia: l’autore sembra denunciare quelle rappresentazioni di grandi drammi tagliati ad arte per poter mettere in scena solo le parti più famose così da non tediare il pubblico, ma in realtà parla della sua stessa opera, ancora prima della pubblicazione tacciata di disorganicità, elemento di cui lui stesso era conscio. Ma è reale disorganicità? Certo che no, le immagini e scene più lontane fra di loro servono proprio a rappresentare uno spettro più ampio ed eterogeneo possibile, che metta su carta l’intera anima del poeta, come un ritratto di Dorian Gray. A questi commenti il Poeta risponde indignato difendendo la propria arte e la propria indipendenza, ma qui viene colto in fallo dal Direttore. Perché si gloria di essere riuscito a riempire una sala? Le persone che attendono alla rappresentazione sono “signore che espongono sé ed i loro vestiti, quegli spera in una partita a carte dopo il teatro e questi in una notte d’ardori fra le braccia d’una ragazza“. Il Direttore, da ignorantone avido di guadagno, rivela qui una certa acutezza e gusto per il paradosso: dimostra come il successo del suo Poeta sia in realtà un insuccesso, come non sia la sua arte a contare qualcosa, ma meramente il contesto sociale, fatto di persone rozze e disinteressate.

Il Poeta risponde indignato lanciandosi in un’altra difesa della poesia alta che rende immortale chi la scrive e l’oggetto trattato, che scende direttamente dal Parnaso e viene, per fortuna, interrotto dal Faceto, il quale gli suggerisce di prendere queste forze e “trattare gli affari poetici così come si tratta un’avventura d’amore“; vivendo quindi. Emerge qui un altro tema spinoso del prologo, quell’apparente separazione fra ispirazione/vita e poesia/intellettualizzazione. Il Faceto, che si preoccupa solo del divertimento e delle risate del pubblico, ha capito che per rendere la poesia e l’arte qualcosa di vivo è necessario che esse traggano materia e spinta dalla vita stessa, sua origine. Il Poeta è invece perso nelle sue razionalizzazioni, riflessioni inconcludenti e spesso incongruenti. Non si può non notare anche qui una certa autocritica dell’autore, che non poco deve aver sofferto nel non riuscire a metter mano come lui stesso voleva a quell’opera che ne era diventata ragion d’essere. Lungo la stessa linea si apre una discussione fra il Poeta e il Faceto, sulla natura e il luogo stesso dell’ispirazione: il primo confonde il richiamo alla vita dell’altro con qualcosa di ormai lontano, la giovinezza, mentre il secondo gli fa notare come solo un uomo adulto o un vecchio possano trarre da quella vita che hanno realmente vissuto gli oggetti della loro arte.

La discussione viene interrotta ancora una volta dal Direttore, a cui va chiaramente la simpatia di Goethe che fu a lungo Direttore del Teatro di Weimar: “Che giova parlar a lungo dell’ispirazione! Essa non appare mai a chi indugia“. Con questa bruciante massima si chiude la discussione che si era impelagata e non apriva a nuovi spiragli, come possiamo immaginare più volte sia successo all’autore nello scrivere l’opera. Proprio con un riferimento implicito all’opera stessa si chiude il Prologo, nelle parole del Direttore: “Adoperate la piccola e la grande luce del cielo e fate largo uso di stelle! [..] In questo piccolo teatro percorrete l’intero cerchio della creazione e muovetevi, con cauta rapidità, dal cielo, attraverso la terra, giù sino all’Inferno“. È chiaro qui il riferimento al Faust nella sua complessità e larghezza di visioni: la successiva scena sarà proprio il Prologo in Cielo, dove si contrae la scommessa fra Dio e Mefistofele, mentre il resto dell’opera sarà sulla Terra, fino a portare Faust negli abissi.


Fonti

Wikipedia

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