Danny Brown – L’esibizione folle di un disagio

Nella cultura hip-hop è, purtroppo, facile trovare palate di banalità e superficialità, dovute sia ad uno stile in parte radicato nella spacconeria e nel narcisismo di strada, sia alle deviazioni che hanno attraversato e connotato il genere da che è esploso nel mainstream. Coloro che ne sono spesso considerati gli alfieri, tendono a virare verso sonorità leggere e tematiche goderecce, lontane dalle laceranti canzoni che negli anni ’80 e ’90 contestavano le ingiustizie e le ineguaglianze della società statunitense.

Stupisce ed affascina dunque il caso di Danny Brown, figura a dir poco eccentrica nel panorama della musica hip-hop. Sin dal secondo album, XXX (2011), il natio di Detroit si è affermato come uno dei più unici ed eclettici rapper degli ultimi anni, reputazione in parte confermata dal successivo Old (2013), nel quale lo sperimentalismo che lo contraddistingue è attenuato in favore di una maggiore orecchiabilità. Quando parliamo di orecchiabile, rimaniamo ovviamente nei parametri imposti da Danny Brown nella sua musica.

Il terzo album, uscito a settembre per la rinomata etichetta inglese Warp, ha rimosso ogni dubbio che poteva essersi sedimentato. Atrocity Exhibition, titolo che riprende al contempo una canzone dei Joy Division (tra le ispirazioni del disco) e un libro di J.G. Ballard, distrugge ogni compromesso per abbracciare tematiche più cupe, riflessive, affrontate con l’aggressività e il sarcasmo che lo contraddistinguono. Come nei suoi lavori precedenti però, non mancano ad inondare le quindici tracce racconti d’abuso di droghe, di sesso, di feste sfrenate al limite del nichilismo. Quest’ultimo termine è la chiave per distinguere il modo in cui Danny Brown riesce a trattare simili temi senza scadere nel triviale o nell’insipido.

L’edonismo di cui parla Brown, infatti, che sia riferito al piacere dell’orgasmo o dello stupefacente, non è mai fine a sé stesso, né senza conseguenze. Anzi, è inseguito dalla condanna, sociale e personale, a cui porta una condotta votata all’autodistruzione. Non a caso la canzone d’apertura, “Downward Spiral”, è un riferimento al Mr. Self-Destruct per eccellenza; anche le percussioni trattengono un suono industriale e scoordinato, mentre la voce schizofrenica di Brown rivela una mente depressa e ossessionata dal suicidio. È da qui che ha inizio il ciclo vizioso, che alterna il timore di morire a momenti in cui la droga sembra la sola via di fuga dalle proprie paranoie come da una società ghettizzante e paradossale.

Si susseguono così classici racconti di vita nei sobborghi poveri e degradati di Detroit, i cosiddetti “projects” (“Tell Me What I Don’t Know”, “When It Rain”), confessioni sull’isolamento e sulla scelta consapevole di essere un edonista (“Rolling Stone”, “Today”), sino agli inneggi all’uso di droghe come via di fuga verso la dissolutezza o semplice relax (“Get Hi”, “White Lines”). I risultati sguazzano rigorosamente nel profano, ma fa tutto parte dello stile di Danny Brown. Anche in Old si erano fatte largo la solitudine (“Lonely”), le storie suburbane (“25 Bucks“) e ovviamente le droghe, prese in quantitativi comicamente esagerati (“Kush Coma”). Ciò che cambia in Atrocity Exhibition è l’approccio di fondo. L’atmosfera si è incupita, è più plumbea rispetto ai suoi predecessori, indice forse di una raggiunta maturità artistica.

Il vortice di abuso e depressione raggiunge un picco con la centrale “Golddust”. L’incedere del flow è simile ad un malato flusso di coscienza, poggiato su di un sample incattivito della già citata canzone dei Joy Division. Le chitarre si alternano con violenza alle strofe, sostenute a loro volta da un giro di basso ipnotico e da percussioni martellanti.

Danny Brown ritorna con produzioni al massimo dell’alternativo, come testimoniato dalle tre tracce che formano il nucleo dell’album. Si tratta delle sopra citate “Golddust” e “White Lines”, precedute dalla reboante “Ain’t It Funny”, il cui beat esplosivo non è certo complesso alla propria base ritmica, ma consente ai fiati e ai bassi che lo sovrastano di accompagnare alla perfezione il rap slanciato di un Brown in forma smagliante. Il produttore britannico Paul White, già collaboratore nei precedenti album e su ben dieci tracce per quest’ultimo, riesce ad assecondare il rigetto delle convenzionalità sonore che è l’arma principale della musica di Brown.

 

Ulteriore traccia che infine spicca per qualità su Atrocity Exhibition è la posse cut “Really Doe”, prodotta dal concittadino Black Milk, che sforna un beat nella cui efficacia si fondono impetuosità e un minimalismo intricato e stratificato che rivaleggia con le composizioni del deceduto J Dilla. Le collaborazioni che vi compaiono non sono da meno: il funambolico Kendrick Lamar, l’epilettico Ab-Soul e un ispirato Earl Sweatshirt contribuiscono a rendere la canzone un coacervo di talenti che poche altre possono vantare.

Con questo album, Danny Brown si riconferma uno dei più inventivi rapper in circolazione. Una fornace di idee, mantra quasi spiritici e pura e semplice follia incontrollata, dietro la quale è sempre fornita una spiegazione, una motivazione sociale. In ogni suo lavoro è esplicita la critica sociale, al cui fianco emergono temi rari per l’hip-hop, quali la depressione e l’ammissione di debolezze personali. Non è certo il primo a tentare simili scelte liriche – basti pensare ad Aesop Rock, o ai Death Grips, oppure ancora a tutti e tre i collaboratori della traccia “Really Doe”. Si tratta di artisti la cui attitudine introspettiva è volta a scardinare certi dogmi imperanti nel genere, mettendo in primo piano la sofferenza individuale, assieme a quella collettiva, e i vizi mortali a cui una vita senza uscite necessariamente porta.

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