Roxane

Osservavo la credenza alla ricerca di un oggetto privo di valore, così da poterle far credere ciò che voleva, ciò di cui aveva bisogno per andare avanti senza accettare la realtà. E, una volta trovato, lo feci scivolare nella tasca interna del cappotto. Lei notò senza dubbio l’insolito rigonfiamento sotto il seno destro ma, come sempre, fece finta di niente; tutto dalla sua vita stava ormai sparendo: i gioielli del matrimonio, suo marito seguito a ruota dagli innumerevoli fidanzati, perfino lei stessa stava iniziando ad affievolirsi nei ricordi delle persone per lasciare spazio a quella che era un tempo. Le diedi un leggero bacio, come se mi sentissi in colpa per i cattivi pensieri, e uscì di casa ignorando che appena udirà gli scatti alla porta correrà in camera sua a cercare, nella borsa, quella bustina di plastica che accarezzerà con le dita per una decina di minuti godendo nell’attesa di inalarne il contenuto.

Scesi le scale pensando che il gingillo preso da casa non valeva neanche quindici euro, così lo regalai al primo barbone incontrato in metropolitana, il quale mi scrutò da cima a fondo facendo chissà quali pensieri sul mio corpo. A dir la verità ormai dopo sei anni non provavo nemmeno più ribrezzo, tutto mi era indifferente: le occhiate mi scivolavano via da dosso, gli insulti che una volta mi facevano scattare come una furia non mi dicevano più niente e perfino il sesso, che era inchiostro indelebile pronto a macchiarmi la pelle, ormai si era schiarito fino a diventare limpido come acqua… A parte l’odio, certo, ignorando quest’odio.
Mi osservai nel vetro del vagone; i capelli scuri e lunghi fino ai gomiti si mimetizzavano con lo sfondo nero della metropolitana e con il cappotto dello stesso colore mettendo in risalto le gambe, bianche come porcellana, coperte fino al ginocchio da un leggero vestito blu, e a concludere dei tacchi grigio tortora comprati in un’altra epoca. Risalii con lo sguardo fino al viso cercando qualche imperfezione in un impeccabile trucco; una sbavatura leggera di rossetto su cui indugiai per un secondo in più mi permise di evitare i miei stessi occhi per la paura di vederci intrappolata chissà quale creatura.

Accavallai delicatamente le gambe, scoprendo così una gran porzione di coscia, e ordinai uno spumante: sorseggiando mi guardai intorno e stranamente non riuscivo a vedere Sergio, magari ha avuto qualche imprevisto con la moglie, o il suo amico brizzolato che indossa sempre la stessa cravatta bordeaux. Pazienza, potevo trovare qualcuno di nuovo. Iniziai a osservare quell’uomo, sulla quarantina, leggermente stempiato, che portava al polso un Cartier e ai piedi scarpe Brioni probabilmente, o forse no, ma pensai che poteva andare più che bene.

Sentii una mano sfiorarmi il fianco, mi girai fingendo un’aria sorpresa e vidi l’uomo, con cui scambiavo sguardi da più di venti minuti, chiedermi se volevo accomodarmi al tavolo con lui. Così, leggermente dubbiosa, gli proposi di ordinare una bottiglia di champagne e gli dissi che lo avrei raggiunto subito. Di nuovo accavallai le gambe, stavolta non su uno sgabello ma su una comoda poltrona di velluto rosso su cui non vi era la benché minima macchia di sporcizia o di unto. Mi feci versare altro da bere, ringraziando con una leggera smorfia come se per me fosse tutto un capriccio. Dopo un paio di bottiglie iniziava a essere brillo, e raccontandomi dei suoi problemi con la moglie confermò la mia teoria: tutte le persone mi cercano perché hanno delle incomprensioni affettive o perché si sentono soli, o semplicemente sono dei porci.

Questa dopotutto mi sembrava una brava persona, senza figli, e con una moglie lontana per lavoro. Praticamente la classica donna che usa il marito per il sesso e non vuole sentir parlare di bambini, colei che Vecchioni ha definito “Quella che fa carriera, quella col pisello”. Eppure Manuele, così ha detto di chiamarsi, non sembrava uno facile da accontentare, anzi. Direttore di banca, investitore in borsa e occasionale scommettitore alle corse dei cavalli; è proprio di quest’ultime che parlammo per buona parte della serata: io le conoscevo tramite Bukowski, mentre lui non sembrava così esperto come voleva dimostrare visto che, a suo dire, perdeva sempre.
L’aria fresca diede immediato sollievo ai miei calori da alcool e trovai un braccio, che probabilmente vent’anni prima era stato muscoloso, a cingermi i fianchi; potevo quasi far finta di non essere ”un’accompagnatrice” e diventare una normale ventitreenne che intratteneva una storia con un uomo maturo. Peccato che questo indossava, indelebile, il segno della fede sul dito dovuto all’abbronzatura di una lampada recente o di un viaggio su un isola caraibica, dove aveva dato ordini tutto il giorno con quel BlackBerry senza godersi minimamente la vacanza. Probabilmente l’anello ora era nella tasca della giacca e, quasi sicuramente, ci stava giocherellando proprio mentre mi proponeva di fare due passi fino al suo hotel.

Giaceva, nudo come un verme, al mio fianco, il suo respiro rumoroso e fioco mi infastidiva così come le calze nere che aveva ancora ai piedi, di cui la destra era leggermente più abbassata. Tutto di quella stanza mi infastidiva: l’eleganza esagerata, l’odore del suo dopobarba costoso mischiato al sudore, ma soprattutto i vestiti gettati per terra nella foga di quella finzione. Mi facevano venire voglia di alzarmi e prenderli a calci urlando dalla rabbia e dal dolore. Bofonchiò qualcosa… “Come scusa?”. Lui mi disse che gli era piaciuto e mi chiese di lasciargli il mio numero. Mi alzai e indossai la sottoveste per non essere turbata da quegli occhi che indugiavano su di me, presi un depliant lasciato dall’hotel e, con la biro blu, trascrissi velocemente il mio numero cellulare vedendo così arrivare dalla finestra il taxi chiamato giusto qualche minuto prima. Con un rapido saluto, uscii da quella camera e scesi lentamente le scale, soppesando ogni passo e considerando strano che per una volta era un uomo a dipendere da me, non viceversa. Così chiusi la portiera e gli diedi indicazioni per arrivare finalmente a casa, davanti a me le prime luci dell’alba, dietro le grida di qualche ubriacone e nella tasca del cappotto, quella interna proprio sotto al seno destro, una piccola fortuna.

Appoggiai la mano sulla maniglia fredda in ottone e, con una leggera spinta, notai che la porta era stranamente aperta: «Mamma?». Nessuna risposta, trovai un messaggio in segreteria dove una voce maschile del dipartimento antidroga mi chiedeva di richiamare ma, senza forze, mi sdraiai sul letto; magari era la volta buona per lasciarla al suo destino e ricominciare. Mi addormentai sognando una mano dolce che mi accarezzava i capelli e ripeteva di fare dolci sogni, Rossana, dolci sogni.


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