“Orlando furioso” di Ludovico Ariosto

Un tentativo di entrare nel mondo di un poema meraviglioso, attraverso l’ottica dei personaggi ma soprattutto dell’autore. Un elogio alla follia firmato Ludovico Ariosto.

Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori

Questo l’incipit dell’Orlando furioso, poema di Ludovico Ariosto. Cenni storici, velocemente, via il dente via il dolore: tre edizioni. 1516, 1521, 1532. Le prime due di 40 canti, l’ultima di 46. Oltre ai cinque canti, un’aggiunta, un epilogo della storia. Controverso il rapporto tra questi canti e i 46 del poema. Metro: l’ottava, naturalmente, il metro del poema cavalleresco.

È proprio questo di cui si parla, infatti: un poema cavalleresco, che prende le mosse da Boiardo ma, andando ancora più indietro, da Turpino, dalla tradizione ferrarese, dalla corte estense tanto amata e criticata da Ariosto.

La trama, il punto dolente. Punto dolente perché non si può studiare l’Orlando Furioso pensando di tessere una trama unitaria, con inizio, svolgimento e fine. Non è così che Ariosto ha impostato la sua opera. Sappiate, lettori, che qualche critico sostiene che Ariosto abbia scritto quest’opera con l’intento mirato di mettere in difficoltà il lettore. Si parla di entrelacement, intreccio, storie ammassate una sopra all’altra, intricate, intrecciate. Sono stati individuati, inoltre, quattro modi in cui l’autore decide di interrompere le situazioni e passare ad altro: la prima riguarda un eroe che viaggia verso una terra lontana, magari in groppa a un animale mitologico, a un ippogrifo, sale in alto, nel cielo, vede un’isola in lontananza e Ariosto lo lascia lì, in balia dell’immaginazione, fermo per diversi canti. La seconda, fastidiosa per i lettori più curiosi, riguarda un eroe che sta svolgendo una prova. Due eroi si scontrano, uno sembra avere la meglio, l’altro incalza, si riprende, un cristiano e un saraceno, il lettore non sa chi vincerà, chi morirà, ma l’autore va via, passa ad altro. La terza: succede qualcosa nella percezione del personaggio. Vede un mostro, un gigante, un’orca, un giardino incantato, e l’autore lo lascia lì, in contemplazione e porta via le fila del romanzo. La quarta, invece, è lo stacco nel momento di maggiore climax: un personaggio in mezzo alla tempesta, le ottave che incalzano sempre di più e il lettore che non vede l’ora di sapere come andrà a finire, è talmente curioso che continua a costruire la storia nella sua testa ma è inutile. L’autore non c’è più.

Tema dell’opera: la guerra tra i franchi, cristiani, e i saraceni, al tempo di re Carlo. Due schieramenti, due eserciti apparentemente avversari, ma che in realtà si intrecciano per vicende, episodi, amori, eventi.

Provare ad addentrarsi nel mondo del poema è un’azione rischiosa, pericolosa, il lettore rischia di perdersi. È forse questo l’effetto che Ariosto voleva ottenere? Innanzitutto, tre temi fondamentali, presentati già nelle prime quattro ottave: la follia di Orlando (ottava II), la storia tra Bradamante e Ruggiero (ottava III-IV), la guerra tra Carlo e Agramante (ottava I).

Primo, la follia di Orlando. Ebbene, l’eroe impazzisce all’altezza del canto XXIII, a metà dell’opera. Ma prima cosa succede? Seguire le fila di Orlando è difficile, si intrecciano con le altre storie, vengono interrotte, riprese, rimandate. La storia si apre con la fuga di Angelica, personaggio che mette in moto l’azione, dà vita al movimento che la caratterizzerà per tutta l’opera: Angelica è il personaggio inseguito, in perenne movimento. All’altezza del canto I, Rinaldo e Ferraù combattono per lei, Angelica fugge di nuovo. Sacripante e Rinaldo combattono, lei ancora in fuga. Ariosto intanto intreccia le fila, altri personaggi, altre storie, il lettore si perde. Poi, finalmente, canto VIII: Orlando. È nell’accampamento, fa un incubo, parte alla ricerca di Angelica. Arriva a Ebuda, dove incontra Olimpia e l’aiuta a liberare il suo amato, Bireno, sconfiggendo Cimosco. E Angelica, in tutto questo? Canto VIII, proprio a Ebuda, la principessa è insidiata da un eremita, rapita dagli abitanti dell’isola e viene destinata a essere divorata dall’Orca, in segno di sacrificio. Il lettore si aspetta che sia il presunto protagonista, Orlando, a salvarla, e invece no, altrimenti la storia finirebbe. Angelica è salvata da Ruggiero, il quale si invaghisce di lei. E Bradamante, la presunta amante di Ruggiero? La storia si complica. Canto XII, Orlando è attratto dall’apparizione di Angelica dentro un magico palazzo, dove ci sono anche altri cavalieri, tra cui lo stesso Ruggiero. Ebbene, vale la pena di aprire una parentesi su questo palazzo, il palazzo di Atlante.

Una piccola, piccolissima parentesi. Atlante, il padre di Ruggiero. Una profezia, su Ruggiero: sposerà Bradamante e poi verrà ucciso a tradimento. Atlante cerca di salvarlo e crea degli espedienti, tra cui questo magico palazzo. Con una particolarità: attira tutti gli eroi facendogli credere di vedere ciò che più desiderano, li tiene nascosti in un movimento circolare da cui nessuno esce, condannato a seguire per tutta la vita ciò che crede di vedere, o di desiderare. Una struttura labirintica, Atlante che tiene le fila dei più grandi eroi: Orlando, Ruggiero, Sacripante. Che ci sia proprio Ariosto dietro la figura del signore del palazzo? Un narratore che muove le sue marionette a seconda delle esigenze narrative.

Di quei ch’andavan nel palazzo errando,
a tutti par che quella cosa sia,
che più ciascun per sé brama e desia.

Ecco spiegato l’espediente. Atlante crea uno spazio dove donne e cavallier vi stanno ad agio (ottava XX, canto XII), dove il macrocosmo del poema viene inserito nel microcosmo di un palazzo, una microstruttura che riprende i valori della macrostruttura. Nel palazzo di Atlante, è ripresa per ben tre volte l’espressione “Le donne e i cavallier”: in piccolo, questo palazzo rappresenta tutto il poema e il mondo di ideali che c’è dietro. E la stessa Angelica, per un attimo, entra nel castello e vede se stessa, quello che gli altri eroi desiderano, un’immagine in realtà inesistente, proiezione della brama di Orlando e di chi la cerca. Eppure, per un istante, anche la principessa vede il suo fantasma. Chiusa parentesi.

Angelica libera inavvertitamente gli eroi, la storia va avanti.

Canto XIX, attenzione: Angelica incontra Medoro, un pagano che era stato ferito mentre cercava di recuperare il corpo di Dardinello, un suo compagno ucciso, per dargli sepoltura. La principessa si prende cura di lui, se ne innamora, fuggono insieme, incontrano un pazzo. Canto XIX, un pazzo. Ma Orlando impazzisce all’altezza del XXIII canto. A che gioco sta giocando l’autore? Lettore abbi pazienza, non perderti, non ancora, abbi fede, ricordati che Ariosto è l’Atlante del poema, regge le fila. Ma è attendibile, l’autore? In un poema che parla di follia, l’autore ne è completamente immune?

Voi scusarete, che per frenesia,
vinto da l’aspra passion, vaneggio.
Date la colpa alla nimica mia,
che mi fa star ch’io non potrei star peggio,
e mi fa dir quel ch’io son poi gramo:
sallo Idio, s’ella ha il torto; essa, s’io l’amo.

E poi, ancora:

Non men son fuor di me, che fosse Orlando;
e son non men di lui di scusa degno.

Ariosto- Atlante, come sceneggiatore della storia, burattinaio che muove le fila. Ariosto-Orlando, distrutto dalla passione amorosa, reso pazzo. Orlando, quindi, cosa rappresenta? Che la sua follia sia solo un epifenomeno, che questa follia in realtà spetti a tutti?

Canto XXIII, Orlando vede delle incisioni sui tronchi, incisioni di amore, Angelica e Medoro. Un contadino gli racconta la loro storia, lui capisce, impazzisce. Da questo momento in poi, Orlando è totalmente bestializzato, la sua dimensione umana non esiste più, è un animale in preda alla follia. Un pazzo assassino, un uomo privo di qualsiasi umanità, folle, furioso.

Ariosto lascia Orlando nella follia per undici canti. Le storie procedono lentamente, ma procedono. Canto XXXIV, Astolfo: un paladino che fino ad ora ha viaggiato sull’ippogrifo, una creatura fantastica creata proprio da Atlante. Astolfo, protagonista del rinsavimento di Orlando. È proprio lui, infatti, a salire nel Paradiso terrestre, e poi, guidato da San Giovanni, nel cerchio della luna. Ed è proprio San Giovanni a mostrare ad Astolfo tutto ciò che si trova sulla luna:

Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l’inutil tempo che si perde a giuoco,
e l’ozio d’uomini ignoranti,
vani disegni che non han mai loco,
i vani desideri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giù perdesti mai,
là su salendo ritrovar potrai.

E ancora:

Sol la pazzia non v’è poca né assai:
che sta qua giu, né se ne parte mai.

Insomma, sulla luna c’è tutto, tutto ciò che gli uomini perdono, ogni singolo dettaglio. L’unico stato d’animo, sentimento, inclinazione che nessuno, nessuno perde, è la follia. E infatti non c’è traccia di questa sulla luna: è tutta sulla terra.

Ecco spiegato l’ideale ariostesco, dunque: non solo Orlando folle, non solo il binomio Orlando-Ariosto, ma tutti quanti, tutti i cavalieri, tutto il mondo. Orlando è l’epifenomeno, è la dimostrazione lampante, ma la follia si trova è tutta sulla terra, nessuno escluso.

Orlando ha perso il suo senno, che come tutto ciò che gli uomini perdono, è finito sulla luna. Astolfo lo recupera in una piccola ampolla, e lo riporta sulla terra.

Orlando rinsavisce, riprende la battaglia, il nemico è sconfitto. Un lieto fine, insomma. O almeno così pare.

Non è possibile scrivere un articolo su tutta la storia dell’Orlando furioso, pena annoiare il lettore, farlo perdere, o rischiare di essere inutilmente prolissi. Questo articolo vuole essere il tentativo di spiegare una minima parte, la più banale, scontata ed evidente parte dell’immensità di questo poema, fatto di piccole sfaccettature, sfumature, ideali. Un poema meraviglioso, l’Orlando furioso. Una parentesi di fantasia, di follia, un’immersione in un mondo fantastico ma strettamente legato alla realtà del tempo, alla corte estense e proiettato nel periodo dei paladini di Carlo Magno. Uno spunto di riflessione, di grandissima attualità. Ci si sente minuscoli a parlarne, non solo per i 46 canti, ma per la maestosità dell’opera. Ci abbiamo provato, nel bene e nel male.

Chi ha scritto questo articolo, lo ha fatto implicitamente per spingere eventuali lettori ad andare a comprare l’opera, metterla nella libreria e sfogliarla, ogni tanto. Leggersi delle ottave, farle proprie, interpretarle. Per i più curiosi, bisogna premettere che sarà un lavoro duro, lungo e faticoso studiare l’intera opera, coglierne le sfaccettature, i collegamenti, capire il meccanismo narrativo, la macchina ariostesca, i personaggi. Ma alla fine il lettore capirà qualcosa in più su quel periodo, sui rapporti umani, forse su se stesso. E dirà che ne è valsa la pena. E se questo non dovesse accadere, se l’opera dovesse risultare noiosa, lunga, complicata e disordinata, il lettore in questione sarà comunque degno di stima, perché sarà stato giusto provarci.
Pro bono malum“, citando Ariosto. Dopotutto, è quello che ci auguriamo tutti noi.


Fonti

Wikipedia

Crediti

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