ora

È solo un’ora

Giulio e sua mamma

È solo un’ora”, pensò sconsolato Giulio, varcando la cancellata del parco.

Sapeva di dover rientrare presto a casa, per fare i compiti; la mamma era stata chiarissima al riguardo: “Puoi andare al parco a giocare, ma solo un’ora, poi torni a fare i compiti”. Ma Giulio non voleva essere triste, voleva godere appieno di quell’ora, non perdere nemmeno un minuto pensando al “dopo”.

Raggiunse i suoi amici e giocò con loro a calcio per tutti e sessanta i minuti che la mamma gli aveva concesso. Il problema fu che quando quei sessanta minuti finirono, a Giulio erano parsi sessanta secondi.

Marta e l’ora di chimica

È solo un’ora” bisbigliò Marta tra sé, mentre la professoressa varcava la soglia dell’aula.

Al sol vedere quegli occhiali e quei capelli raccolti ogni giorno allo stesso modo, le prendeva un’agitazione all’altezza dello stomaco che difficilmente riusciva a sedare nel corso dell’ora che la professoressa trascorreva in classe.

Perché Marta sapeva di essere una ragazza intelligente, in gamba, riusciva in tutto quello che faceva, tranne che in chimica. E viveva ogni ora di lezione, ogni ora passata con la testa sul libro nella confusione totale, come un fallimento continuo.

Sapeva che, nel momento in cui la campanella avrebbe suonato, sarebbero cominciati i suoi sessanta minuti di sconforto, di frustrazione. Questi sessanta minuti non passavano mai, come a voler sottolineare quell’insuccesso, quella sconfitta perenne.

L’ora di chimica, ogni settimana, era l’ora più lunga della sua vita.

La signora Maria e la casa di riposo

È solo un’ora”, pensò emozionata la signora Maria, sbirciando l’orario sulla sveglia.

Erano le sette del mattino, aveva dormito una notte serena, perché sapeva che mancavano solo sessanta minuti all’arrivo di sua figlia.

La signora Maria, vedova, era stata relegata in una casa di riposo a seguito del trasferimento della figlia per lavoro, in quanto non ritenuta in grado di vivere da sola. Quel che la figlia della signora Maria non sapeva, è che sua madre in quella casa di riposo soffriva molto più di solitudine piuttosto che da sola nella casa in cui aveva trascorso gli anni più felici della sua vita. Perché per quanta gente potesse starle intorno, nessuno era come sua figlia, i suoi nipoti, le signore del vicinato che andavano a trovarla.

Quindi, ogni sabato mattina, la signora Maria alle ore 7, puntuale, apriva gli occhi, realizzando che solo sessanta minuti la dividevano dal vivere il giorno più bello di tutta una settimana. E quei sessanta minuti scorrevano lenti, lentissimi, le facevano assaporare ogni secondo di quell’attesa, le facevano provare insieme la gioia e la frustrazione, la paura che qualcosa andasse storto, che sua figlia non arrivasse. Ma sua figlia, allo scoccare del sessantesimo minuto, varcava sempre la soglia della sala comune, trovando la signora Maria sorridente, come non mai negli altri sei giorni della settimana.

Claudia e l’assenza di suo figlio

È solo un’ora”, si ripeté ad alta voce Claudia salendo in macchina.

Aveva appena lasciato Davide, il suo piccolino, in compagnia della maestra per il suo primo giorno, anzi, la sua prima ora di inserimento, all’asilo nido. Salì in macchina, pensando a quante cose avrebbe potuto fare in quell’ora, in quei lunghi sessanta minuti di libertà; ripensò a quanto le aveva detto sua madre, a come bene aveva descritto il senso di “liberazione” che avrebbe provato avendo un pochino di tempo solo per sé.

Mise in moto l’auto, risoluta a volersi godere una colazione al bar in tranquillità, ma non riuscì a partire. Per quanto desiderasse godere di quei sessanta minuti da sola, non riusciva ad allontanarsi dalla scuola, non riusciva a tranquillizzarsi, a pensare che suo figlio stesse bene, anche se non erano insieme.

Spense quindi l’auto e rimase a fissare il portone della scuola per quell’ora che la divideva dal riabbracciare suo figlio, non senza versare qualche lacrima all’idea che quell’ometto col grembiule che aveva appena accompagnato all’asilo l’aveva fatto lei, cresciuto lei ed ora era già così grande.

Invece che trascorrere la sua prima ora senza Davide all’insegna della spensieratezza, visse l’angoscia di quei sessanta minuti, uno per uno, ognuno che pesava come un’ora intera, nell’attesa di riabbracciare il suo piccolo pezzo di cuore.

L’ultima ora di Matteo

È solo un’ora” pensò, sospirando, Matteo.

Non era del tutto consapevole che quella sarebbe effettivamente stata l’ultima ora della sua vita. Gli ultimi sessanta minuti, gli ultimi tremilaseicento secondi e poi tutto sarebbe finito.

Ripensò a quei suoi trent’anni vissuti, alle cose belle (poche) e alle cose brutte che aveva dovuto affrontare, fino a quell’errore, il più grosso, che gli era costato la libertà e che a breve avrebbe ripagato con la sua stessa vita.

Gli avevano chiesto cosa volesse mangiare, se avesse un ultimo desiderio particolare, ma la mente di Matteo era annebbiata, ovattata, cercava di realizzare una condizione che di per sé non si può comprendere appieno, fino in fondo: quella era la sua ultima ora nel mondo. Per sempre.

Cercò di toccare ogni singolo secondo, di assaporare ogni singolo attimo; quegli attimi, che in quegli anni di prigione gli erano sembrati tutti uguali, ora assumevano ognuno un aspetto diverso: rabbia, risentimento, pentimento, dolore. C’erano anche gli attimi che gli ricordavano che era stato felice, anche se per poco, molto tempo prima.

L’impressione che ebbe, fu quella che quegli ultimi minuti di stessero rincorrendo: sembravano tantissimi, a pensarci, ed invece eccoli lì, scorrere davanti a suoi occhi, velocissimi, inafferrabili, fino al momento in cui le guardie arrivarono a prenderlo. Lì, il tempo, si fermò.

 

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