Baudelaire, l’albatros e lo straniero

Se devo pensare ad un animale che simboleggi la grazia, l’eleganza e la libertà mi viene in mente un grande e maestoso albatro.

Non tutti sanno che questi magnifici volatili sono i più grandi tra una ventina di specie differenti, ed hanno un’apertura alare più ampia fra tutti gli uccelli: 3, 4 metri.
Con le loro grandi ali sferzano l’aria e dominano il cielo.
Ma se catturati e fatti prigionieri appaiono quasi brutti, comici.
I marinai si burlano di loro, li ridicolizzano appoggiando sotto il becco una pipa o imitando il loro passo zoppicante.
E’ così che il poeta francese Charles Baudelaire, nella sua poesia L’albatro, descrive i terribili supplizi che gli albatri, questi viaggiatori alati, devono subire per divertimento dei marinai.
E tormentato l’albatro si muove in maniera goffa, ridicola poiché nato per volare e non per stare sulla tolda di una nave.

Il poeta è come lui, principe delle nubi,

che sta con l’uragano e ride degli arcieri;

esule in terra fra gli scherni, non lo lasciano

camminare le sue ali di gigante.

Infatti come afferma il poeta, critico e traduttore tedesco Walter Benjamin: capace di volare ad altezze sconosciute alla massa, il poeta soccombe alla violenza con cui essa lo attira a sé e ne fa uno dei suoi. 
L’albatro porta in seno un concetto diverso di xenos, ed è proprio questo che vuole sottolineare Baudelaire, ovvero la condizione del poeta di esule, straniero nel mondo, ma soprattutto nella società in cui vive.
Per questo, i marinai in realtà alludono al pubblico borghese, incapace di credere più al ruolo – guida della letteratura e della poesia.
Così gli artisti non possono che accentuare ancora di più la loro posizione di dissenso o addirittura di rifiuto verso i valori che la borghesia incarna.

Il poeta si trova a vagare solitario, perso, per le strade caotiche delle città, senza nessun segno distintivo, anonimo in mezzo alla folla.
Questo senso di emarginazione gli ha causato la perdita dell’aura, ovvero la sacralità e il privilegio del suo ruolo.
Perciò si vede costretto ad abdicare al suo ruolo di guida, per cercare e subire l’isolamento, la reclusione e il conseguente risultato di una vita trasgressiva e sregolata.
Il poeta come l’albatro, si trova deriso e costretto a vivere in una condizione di marginalità: entrambi, ormai catturati, girano in tondo desiderando altezze impossibili.
In un certo senso il mondo di Charles Baudelaire è molto simile al nostro.
Egli assiste ad un forte sviluppo scientifico – tecnologico e industriale, che come abbiamo visto, ha portato molti artisti della sua generazione a nascondersi nelle profondità più segrete dell’io, facendo affidamento negli strumenti del simbolo e dell’analogia.
Inoltre le città cambiano, si popolano, si espandono, vengono modernizzate, ampliate, divenendo delle vere e proprie città metropolitane.
E in questo tipo di città è molto facile perdersi, non riconoscersi più, venire completamente risucchiati dalla folla.
Spesso si fa fatica a trovare il proprio posto in una città in continuo movimento, sempre di fretta.
Puoi sfiorare uno sconosciuto per sbaglio, legare per un solo secondo la propria esistenza con la sua, ma poi giri dove lui invece va dritto e vi separerete per sempre.
Come racconta Baudelaire nella sua poesia Ad una passante.
Se da una parte le metropoli divengono simbolo della modernità, dall’altra esse covano nel loro ventre demoni oziosi e indolenti, come la noia e il languore, che trovano spesso spazio nelle poesie del poeta.
Le città masticano l’individuo, lo spremono, lo mettono all’angolo, lo emarginano.
Esse amplificano ancora di più il tormento di Baudelaire.
E quindi non è così strano che egli si senta esule e straniero in patria.


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