ansia

TU NON SEI LA TUA ANSIA

“Tu non sei la tua ansia”

La pedagogista clinica glielo ripeteva continuamente. Ma era la cosa più difficile di cui convincersi. Perché quando perdeva il controllo, quando tutto le sfuggiva di mano, quando le si annebbiava la mente e i pensieri si mescolavano, sembrava essere la parte preponderante di lei: si sentiva come se fosse fatta solo di quell’ansia.

Il primo attacco di panico

Il ricordo del primo attacco di panico era bene impresso nella sua memoria, perché coincideva con una data molto importante: il suo primo esame universitario. Fu quel giorno, dopo aver studiato per settimane con una costanza che mai aveva avuto in tutto il suo percorso di studi, quando era consapevole di sapere tutto e che non avrebbe mai potuto fallire, che l’ansia per la prima volta si fece largo nella sua mente, confondendola e facendo sì che quel tempo dedicato allo studio risultasse inutile.

Ripensandoci, riusciva ancora a sentire quella forte morsa allo stomaco, che quasi le provocò la nausea, e quella sensazione di non riuscire a formulare una frase di senso compiuto. I termini studiati si accavallavano uno sopra l’altro, non permettendole di districare quei nodi di parole e quindi di parlare, di rispondere alla domanda appena postale, di cui era certa di sapere la risposta che, tuttavia, non riusciva a tirare fuori.

Rivolgeva al professore uno sguardo spaventato, avrebbe voluto dirgli “la so, glielo giuro, ho studiato, mi dia un attimo di tempo, risponderò”. Ma i professori universitari non sono di certo celebri per essere persone comprensive. Sbuffando, le propose una seconda domanda, ma la nebbia nella sua testa non accennava a dissiparsi.

Il battito cardiaco accelerava sempre di più, come se il cuore potesse uscirle dal petto. Il respiro affannato, le mani sudate e poi loro. Lacrime. Lacrime che non uscivano, strozzate dalla volontà di non cedere. Provò a parlare, a rispondere. Sapeva la risposta a quella domanda, ma tutto quel che usciva dalla sua bocca erano balbettii incomprensibili.
Il professore la invitò, più o meno gentilmente, a ripresentarsi all’appello seguente, “preparandosi meglio”. Si alzò dalla sedia, raccolse le sue cose alla rinfusa e uscì dall’aula.

Perché non hai detto niente?

Una volta fuori dalla porta, ricominciò a respirare. Pian piano il suo cuore rallentò, riprendendo un ritmo quasi normale. La nebbia nella sua mente, invece, rimaneva lì, ancorata ai suoi pensieri. Si sedette contro il muro, cercando di capire cosa fosse appena successo. Non riuscendo a dare una risposta razionale alla domanda: “Perché non hai detto niente?”.

Con lentezza si avviò verso casa. Nel tragitto cercò di pensare ad altro, fino a quando non la colse il pensiero che avrebbe dovuto, prima o poi, comunicare alla sua famiglia che, dopo aver studiato per settimane assiduamente, era stata bocciata.
Decise che ci avrebbe pensato più tardi, spense il telefono e una volta arrivata a casa fece un lungo bagno caldo, che la aiutò a rilassarsi definitivamente.

L’ansia del fallimento

Quello, però, era stato solo il primo attacco di panico di una lunga serie. Col tempo, cominciarono a presentarsi non solo in “occasioni ufficiali”, ma anche nei momenti più insospettabili: quando faceva la spesa, mentre studiava, mentre guardava un film o leggeva un libro. Ma gli attacchi d’ansia che più le facevano perdere la calma erano quelli che si presentavano la sera quando, dopo una lunga giornata di studio o di lavoro, se non entrambi, chiudeva gli occhi e aveva solo voglia di dormire.

Eccola lì, in agguato e puntuale: l’ansia. “Hai studiato? Hai lavorato bene? Quello che guadagni ti basta per arrivare alla fine del mese?”. Le domande che l’ansia le proponeva quando chiudeva gli occhi erano le più svariate, le più stupide, eppure le toglievano il sonno, acceleravano il battito cardiaco, il respiro e, come sempre, non le permettevano di pensare lucidamente. In quei momenti perdeva totalmente la ragione.

Riusciva a pensare una cosa e il suo esatto contrario contemporaneamente, sentiva di essere una nullità, di fallire continuamente, di non essere in grado di svolgere nemmeno le attività più elementari. In quei momenti accendeva la radio, si sintonizzava su una stazione a caso e cercava di concentrarsi solo ed unicamente sulle parole dello speaker: in questo modo, spegnendo la sua mente, riusciva ad addormentarsi.

La continuità degli attacchi d’ansia

Questi attacchi continuarono per mesi, all’insaputa dei suoi familiari e persino dei suoi amici più intimi: non raccontava a nessuno di come l’ansia la stesse divorando, perché si riteneva stupida a sentirsi in questo modo. Non era un male fisico, non era qualcosa di tangibile o visibile, era tutto frutto della sua mente. Si sentiva stupida, perché non riusciva a mantenere il controllo dei suoi stessi pensieri. Quale persona intelligente non riuscirebbe a farlo?

Un giorno, però, l’ansia si presentò non appena ebbe varcato la soglia della biblioteca. Il suo attacco di panico divenne evidente a tutti gli studenti che la circondavano: non era più solo nella sua testa, era diventato visibile a tutti. Le caddero i libri, cominciò a girarle la testa, si sentì svenire e se non fosse stato per la prontezza di una ragazza che si trovava di fianco a lei probabilmente lo avrebbe fatto. La ragazza la fece sedere, le portò dell’acqua e aspettò con lei che la nebbia svanisse.

Con chi parlarne?

Dopo aver ringraziato la ragazza, tornò a casa e prese una decisione, forse la più importante della sua vita. Era arrivato il momento di parlarne con qualcuno.

Ma con chi? Temeva di sentirsi giudicata, che le persone intorno a lei potessero pensare che fosse pazza. C’era solo una persona della quale non temeva il parere, perché sapeva che non l’avrebbe mai giudicata: sua madre. Le scrisse quindi una lunga lettera in cui le spiegava quei lunghi mesi di dolore, di fatica, ma soprattutto di tristezza: perché quando ci si sente fatti di sola ansia e non si vede altro che i fallimenti della propria vita, sorridere, ridere ed essere felici sono le imprese più ardue.

Le raccontò nel dettaglio ogni singolo momento in cui l’ansia aveva preso il sopravvento, come si era sentita durante e dopo gli attacchi di panico. Le scrisse anche che in fondo sapeva di essere una persona che valeva, in grado di costruire qualcosa, ma che c’era una paura che la bloccava, più grande di tutte le paure del mondo, e che non le permetteva di essere se stessa.

Quando sua madre lesse quella lettera, pianse. Pianse davanti a lei, davanti a quel dolore, davanti a quella figlia che le chiedeva aiuto. Il suo pianto deriva dal fatto che lei riusciva a toccare quel dolore, a sentirlo in ogni parola. Dopo un lungo pianto, le disse che sì, lei era una persona che valeva. Soprattutto perché, di fronte ad un problema, era stata in grado di chiedere aiuto, di non lasciare che l’ansia vincesse. E questo non avrebbe potuto impararlo in nessun corso universitario.

Fu grazie all’aiuto di sua madre che decise di cominciare a frequentare la pedagogista clinica, di combattere quel mostro che le cresceva dentro. E fu proprio lei ad insegnarle che no, non era fatta d’ansia, che questa non era nient’altro che una minuscola parte di lei, che poteva essere combattuta, ma soprattutto, vinta.

 

CREDITS

Copertina

Ansia

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.