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Sorridere sul posto di lavoro: timbrare ogni giorno il cartellino della felicità

Il sorriso è una delle meraviglie del corpo umano per cui i muscoli facciali si contraggono, conferendo alle labbra un arco di gioia, agli zigomi la voglia di esplodere e agli occhi una scintilla di vivacità. La naturalezza di questo gesto è spiazzante, come anche il fatto che questa sia troppo spesso minata sul posto di lavoro.

Sorridere sul posto di lavoro

Il controllo delle proprie emozioni in ambito lavorativo non è un concetto nuovo. Già nel 1938, in un’epoca apparentemente molto distante dalla nostra, la sociologa statunitense Arlie Russell Hochschild aveva posto l’accento sulla richiesta di razionalizzare le proprie emozioni fatta dal datore di lavoro ai propri dipendenti, plasmandole a proprio piacimento.  Soprattutto da chi lavora costantemente a contatto con la clientela ci si aspetta gentilezza, empatia, preoccupazione genuina per le problematiche del cliente, costante allegria e sorrisi a 36 denti. Al venir meno di queste attese, l’insoddisfazione è automatica e lo sappiamo bene. A ognuno di noi è infatti sicuramente capitato di doversi scontrare con comportamenti non a modo di un lavoratore e, nonostante i vani tentativi di non far trapelare il nostro disappunto, l’esperienza che ci ha fatto incontrare quella persona è stata segnata negativamente.

Business is business, dicono gli inglesi. Se gli affari sono affari, è questa la cosa più importante per le imprese, da porre in cima alla piramide delle priorità. E si sa: un commesso sorridente e cordiale vende di più. Ecco che il focus sulle vendite si trasforma in un batter d’occhio nella necessità per il dipendente di mettere da parte i propri problemi personali, nascondere di essersi alzato con il piede storto e dissimulare una costante positività, che non si dovrebbe augurare neanche all’acerrimo nemico, dal momento che la vita per definizione è fatta di alti e bassi. Questa esigenza sul posto di lavoro assume le caratteristiche di un vero e proprio imperativo, una regola come quella di timbrare il cartellino: l’obbligo di sorridere.

Se negli anni Trenta era già un terzo delle aziende ad esigere felicità, oggi le statistiche additano almeno la metà delle imprese esistenti come sostenitrici della “dittatura del sorriso“. Ciò significa che ben il 50% dei lavoratori con cui potremmo potenzialmente relazionarci ci dimostrano una felicità fittizia e di facciata, alla Truman Show. L’aumento rispetto al passato è da imputare alle realtà aziendali che richiedono adesso questo sforzo non solo a chi opera a contatto con il pubblico, ma a tutti i lavoratori nei rapporti con colleghi e superiori.

Critiche e riflessioni

Non è forse vero che si è più produttivi quando si è davvero appagati? È questa la maggiore critica mossa, secondo cui questa strana pretesa sarebbe addirittura controproducente. Il cliente potrebbe rimpiangere la spontaneità di un tempo dimenticato in cui la trasparenza delle emozioni era tutto, ma è per il dipendente che, portato a reprimere il proprio reale stato d’animo, si profilano le conseguenze più pesanti, fatte di vere e proprie crisi. Dopotutto ci viene insegnato fin da piccoli di essere noi stessi e tutta questa finzione, non dissimile da quella che troviamo nelle foto caricate sui social network, è un vero e proprio attentato a questo prezioso insegnamento.

L’obbligo di essere felici e di sorridere per un numero consistente di ore quotidianamente ci aiuterà a seguire la scia anche fuori dal posto di lavoro o tutta la negatività che abbiamo messo da parte riaffiorerà prepotentemente una volta varcata la soglia dell’ufficio? A voi l’arduo verdetto.

 

Fonti:

www.businessinsider.com

Credits:

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