Il cloud dà l’idea di essere immateriale, ma non lo è.
La “nuvola” informatica a cui milioni di aziende, istituzioni e privati affidano i propri dati ha sostituito i supporti fisici dando l’illusione, complice il nome, di essere un’alternativa eterea ed ecologica.
Le foto non vengono più stampate, il digitale ha soppiantato pellicola e nastro magnetico: adesso, quello che avrebbe riempito chiavette USB e hard disk finisce nella rete, dove gli utenti conservano sterminati backup di foto e video, anni di attività sui social network, caselle di posta elettronica colme di mail che occupano decine e decine di gigabyte.
Contemporaneamente, piattaforme di streaming di audio e video si basano sul cloud per far sì che film e dischi siano sempre a disposizione con un solo click.
È difficile rendersene conto, perché tutto il sistema conta sull’assenza di supporti fisici, ma in realtà non esiste nessuna nuvola, solo enormi data center che supportano la rete consumando energia, sprecando risorse e inquinando il pianeta.
Non solo fabbriche e petrolio, quindi: anche il cloud inquina.
I data center e l’emergenza climatica
La notizia non è nuova: già nel 2012, grazie a un’inchiesta del New York Times, è venuto a galla che le compagnie stessero sfruttando realmente in media solo un decimo dell’energia elettrica che alimentava i server dei data center. Il resto serviva solo a tenere sempre in moto la macchina.
Garantire che i server siano sempre attivi e pronti a eventuali aumenti di traffico è fondamentale per evitare rallentamenti e sovraccarichi del flusso di dati, che comporterebbero la perdita di clienti: in questo ambiente, un’ora di “down” di un server equivale a un’eternità.
Come se non bastasse, per alimentare i computer non-stop ed evitare arresti anomali del sistema in caso di guasti dei generatori (dannosi anche se della durata di un millesimo di secondo), le server farm fanno affidamento anche su enormi quantità di batterie.
Le conseguenze di questo regime sono di difficile lettura anche per gli addetti ai lavori, ma è necessario pensare al cloud computing in termini più consapevoli per quanto concerne la crisi climatica, perché i server hanno pur sempre bisogno di energia elettrica (e di acqua per i sistemi di raffreddamento), quindi non si può pensare che la rete sia una risorsa inesauribile, gratuita ed eterea.
L’emergenza climatica, d’altronde, minaccia internet come internet minaccia il pianeta: l’innalzamento dei mari, nei prossimi decenni, rischia di sommergere i cavi che lo “trasportano”, causando problemi più o meno gravi alla trasmissione dei dati, proprio a confermare che la rete sia tutt’altro che immateriale.
Gli accorgimenti in grande
Studi più recenti hanno stabilito che le stime precedenti sulla crescita dei data center di tutto il mondo avessero sovrastimato il loro peso sull’inquinamento. In particolare, uno studio pubblicato a febbraio 2020 nella rivista scientifica Science ha rilevato che, nonostante la richiesta sia aumentata di sei volte dal 2010 al 2018, il consumo energetico dei data center a livello globale è aumentato solo del sei percento. Il risultato migliore è di Google: la compagnia è riuscita a generare un traffico di dati sette volte più denso rispetto a cinque anni fa senza aumentare i consumi energetici.
Di fatto, dunque, i consumi sono ben compensati dal lavoro svolto. Questo grazie a una ricerca attiva di soluzioni per rendere i data center sempre più efficienti, con un occhio di riguardo verso scelte più sostenibili e con qualche accorgimento logico, come la costruzione di enormi data center in zone che ne favoriscono il raffreddamento naturale, come l’Artico.
Prima di festeggiare, però, è bene sottolineare che le prospettive future siano comunque incerte: è probabile che la situazione si mantenga stabile solo per i prossimi tre o quattro anni, mentre diventerà sempre più complicato mantenere basse le emissioni di carbonio pur mantenendo un profilo energetico efficiente.
La sfida, dunque, consiste in maggiori investimenti nella ricerca e l’utilizzo di energie rinnovabili. In più, per fare un esempio, le società che offrono servizi di streaming potrebbero rinunciare a qualche feature opinabile, come i video che partono in automatico su Facebook o l’alta definizione su Netflix e Youtube. D’altronde, alcuni di questi accorgimenti sono stati già presi nel marzo 2020, quando il coronavirus pandemico Covid-19 ha costretto dentro casa milioni di persone e il traffico di dati ha raggiunto picchi mai registrati prima.
Cosa può fare il singolo?
Un primo passo alla portata di tutti per diminuire l’impatto del cloud sull’ambiente potrebbe essere quello di mandare qualche mail in meno. Una società di energia britannica, Ovo Energy, ha lanciato a novembre 2019 lo slogan “Think before you thank”, per sensibilizzare gli inglesi sul peso negativo di un gesto semplice e immediato come l’invio di un “grazie”.
Secondo Ovo Energy, se ciascun adulto inglese mandasse una mail superflua in meno al giorno, in un anno si risparmierebbe la stessa quantità di carbonio di 81.152 voli per Madrid.
Chiaramente questo accorgimento non farebbe la differenza contro la crisi climatica, ma questo tipo di studi funziona allo scopo di creare maggiore consapevolezza sull’impronta ecologica delle nostre abitudini.
Piccoli gesti quotidiani, come cancellare l’iscrizione a una newsletter che nemmeno leggiamo, rappresentano un piccolo passo da non sottovalutare. Dopotutto, non è facile né immediato realizzare che una mail pubblicitaria indesiderata possa inquinare quanto i volantini cartacei infilati nella cassetta della posta.