Virgil Abloh stava alla moda come Warhol e Duchamp stavano all’arte. Ma, così come sarebbe stato inutile cercare un paragone tra Michelangelo e Andy Warhol, tentando inutilmente di appellarsi alla capacità tecnica, così lo era cercare di paragonare Virgil Abloh agli stilisti che avevano fatto della couture la storia della moda novecentesca, come Valentino o Dior. Lui non era uno di loro, infatti non si faceva nemmeno chiamare stilista, ma direttore artistico.
Il metodo
Abloh aveva deciso di appropriarsi del ready made di stampo duchampiano e di applicarlo all’arte, forte della consapevolezza che per ottenere un nuovo prodotto bastava cambiarne uno già esistente del 3%. Pyrex, il suo primo brand, era nato esattamente così: acquistando un dead stock di Ralph Lauren e applicandovi la scritta PYREX accompagnata dal numero 23. Nasceva così, nel 2012, un nuovo marchio.
Nel 2013 l’azienda PYREX VISION crolla e dalle sue ceneri nasce OFF WHITE. In breve tempo, questo marchio diventa la punta di diamante dello streetwear di lusso, portato dai sodali del clan Kardashian-Jenner, da rapper e personalità di spicco della cultura pop. Nel 2019, la conferma del successo, Lyst elegge OFF WHITE come brand più desiderato al mondo.
Virgil, re Mida del XXI secolo, grazie al sistema delle collaborazioni, è riuscito a coinvolgere nella moda anche i giovani, figli della cultura dell’hype. Profondo conoscitore dei gusti della sua generazione e quelle successive, è stato capace di far mettere in coda orde di ragazzini di fronte a OFF WHITE, in attesa dell’apertura del negozio, bramosi di agguantare un pezzo delle nuove collezioni e di rivenderlo al doppio su StockX. Virgil è stato capace di ascoltare i desideri e i bisogni delle nuove generazioni e tradurli in fatturati da milioni di euro.
Rest in Paradise #fashion #king #VirgilAbloh !!!
Virgil Abloh (far right), with Kanye West and friends, in Paris
Photographed by Tommy Ton outside of the fall 2009 Comme des Garçons show pic.twitter.com/uYrZQJWOwu
— Prophesoar KohBane QuestLore🌏👽Legalize eARTh🎃🌳 (@GriffKohout) November 29, 2021
Morte dello streetwear
Sarebbe ingenuo pensare che Abloh non fosse consapevole delle fragilità dello streetwear. In un’intervista rilasciata a «Dazed» nel 2019, affrontava questo argomento, decretando la morte spirituale dello stesso streetwear. Alla domanda “Qual è il futuro dello streetwear?” rispondeva: “di quante sneakers, t-shirt e felpe avremo ancora bisogno?” e asseriva che il futuro della moda si sarebbe espresso col vintage.
Ecco che due anni dopo, con Valentino, Jean Paul Gaultier e Gucci intenti a riaprire gli archivi e rilanciare i propri pezzi vintage, occorre dire che Abloh aveva proprio ragione. Era il perfetto interprete dei tempi che correvano, era l’uomo della sua generazione, aveva capito quando era giunto il momento dell’ascesa dello streetwear a fenomeno di massa e aveva capito che si era molto vicini alla sua fine.
Louis Vuitton
Nel 2018 Abloh aveva varcato ufficialmente la soglia dell’Olimpo della moda: con la sua elezione a direttore creativo di Luis Vuitton, Virgil era il primo afro-americano a capo di una maison europea. La prima sfilata è stata presentata a Parigi al Palais-Royale in un pomeriggio di giugno del 2018. La collezione era la Spring-Summer 2019, i modelli, di ogni etnia, camminavano su un tappeto arcobaleno. Il look d’apertura era un blazer bianco doppio petto, accompagnato da pantaloni con piega larghi e lunghi, ai piedi delle sneakers. Seguendo la lezione dei maestri del passato, tra cui Helmut Lang, ha unito il casual al formale, trovando uno spazio per lo streetwear dentro le collezioni luxury.
Kanye breaking down in tears after his longtime friend, now late Virgil Abloh, debuted his first menswear collection for Louis Vuitton during Paris Men’s Fashion Week in 2018.
It was a phenomenal racial breakthrough as Virgil's renowned creative efforts finally got appreciated. pic.twitter.com/0UOp9rxjfv
— Facts About Africa (@OnlyAfricaFacts) November 28, 2021
La virata
Consapevole che inserire solo degli elementi “street” non sarebbe stato sufficiente, negli anni successivi alla direzione creativa di Vuitton, Abloh ha cercato di lavorare su volumi e sartorialità. Nella collezione autunno-inverno 2020, ispirata a Magritte, rappresenta il ciclo vitale del completo maschile; Abloh aveva commentato di voler uscire dalla sua zona di comfort per sperimentare vie inedite, motivo per cui accanto a giacche dai colori sgargianti, o con ruches, erano presenti sei completi accompagnati da borse in pelle, omaggio alla tradizione della Maison.
Lo Zoot suit come strumento di cultura
Nel corso della sua carriera, Virgil Abloh ha spesso portato omaggio alla cultura afroamericana, tributo presente anche nell’ultima sfilata, quella presentata postuma. Uno dei look presentati è una rivisitazione dello Zoot Suit, capo che aveva contraddistinto la popolazione afro-americana negli anni ’30 e ’40 del Novecento.
Negli anni Trenta, durante l’Harlem Renaissance, i ballerini iniziarono a indossare completi ampi che accentuassero i loro movimenti: abiti larghi con polsini affusolati, lunghe giacche con spalle imbottite e ampi risvolti; l’abito acquisì popolarità grazie ai cantanti jazz dell’epoca e il suo uso fu allargato anche alle comunità di italo-americani e latini. Lo Zoot suit aveva una forte valenza politica, permetteva infatti a chi l’indossava di distinguersi e risaltare creando un netto contrasto con il luogo in cui questi completi venivano portati, ovvero i bassifondi e le periferie delle città statunitensi.
Durante gli anni della guerra, l’uso dello Zoot Suit venne criticato dai bianchi americani per via dell’ampio consumo di lana che ne comportava la realizzazione; nel 1943 si arrivò al culmine dell’insofferenza con gli Zoot Suit Riot, tumulti giovanili avvenuti a Los Angeles, in cui si scontrarono i portatori di Zoot Suit, messicani e afro-americani soprattutto, e le forze dell’ordine; la contea di Los Angeles per ripristinare l’ordine e far cessare i tumulti rese illegale indossare quei completi.
Il significato socio-politico di quest’abito è quindi pregnante, non è un caso, dunque, che Abloh l’abbia spesso adoperato, fino alla fine, nel caso dell’ultima sfilata, allargandone le spalle e orli, sostituendo i bottoni con una fusciacca, modificandolo di quel del 3% che era il mantra della sua filosofia.
Abloh è stato capace di trascendere il dibattito sull’abito per parlare di sè stesso, della sua filosofia, della sua idea di inclusione e diversità. Il suo approccio ready-made può essere criticato, ma ha sicuramente cambiato radicalmente la storia della moda contemporanea, segnandone uno spartiacque.
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