Il tabù delle fave che uccise Pitagora

“Αποφύγετε τα φασόλια” ordinava Pitagora ai suoi discepoli. L’antico filosofo greco imponeva loro di astenersi dalle fave. Il veto era insistente e vincolante: non si poteva sgarrare. Era un imperativo categorico a cui il teoreta stesso e i suoi allievi dovevano rigorosamente attenersi. Ma perché erano proibite proprio le fave?

La natura del tabù è una questione ambigua. Certezze sul vero significato di tale proibizione non ce ne sono. Le fonti giunte a noi non sono abbastanza, né le informazioni esaustive. D’altronde si tratta sempre di un’interdizione sacrale e pericolosamente inviolabile: meno si diceva, meglio era. E l’alone di mistero non faceva altro che aumentare. Le spiegazioni erano quasi del tutto assenti e le conoscenze a proposito di tale legume ancora meno. Solo una cosa era certa: non si dovevano mangiare.

Il pensatore di Samo non ha lasciato niente di scritto poiché credeva che i pensieri andassero trasmessi solo oralmente. Dogmi e regole erano da imparare a memoria. Inoltre la stessa scuola pitagorica si basava sul principio di segretezza che non aiuta affatto a portare in luce ciò che per noi – ma anche per i filosofi stessi – è enigmatico. Il patto di riservatezza era uno dei pilastri centrali di questa scuola filosofica.

Dopo la morte di Pitagora, i seguaci scrivono a proposito della vita del maestro. Ma troppe esagerazioni e paradossali particolarità caratterizzano le biografie del filosofo. I suoi studi, i suoi viaggi, le sue avventure e gli episodi più importanti sono trasmessi e raccontati anche per iscritto. Però troppa enfasi e stravaganza nelle narrazioni portano alla presentazione di un insegnante addirittura divinizzato. E ancora una volta risulta problematico smascherare il tabù alimentare riguardante la pianta erbacea.

La religione è il fondamento di tale divieto. Come qualsiasi altro tabù la mancata autorizzazione a mangiare fave non è nient’altro che lo specchio in cui si riversano mancanze e insicurezze del popolo. Ci sono domande a cui nessuno riesce a trovar risposta. L’incertezza aumenta. Il popolo però preferisce evitare l’argomento, imponendo un’interdizione. Scappare dal mistero sembra più facile rispetto a doverlo affrontare e il tabù rimane avvolto nell’oscurità, indecifrabile e inspiegabile.

Si pensa che Pitagora avesse appreso nozioni sulle fave durante i suoi viaggi. In Egitto e in Babilonia imparò che tali legumi erano peccaminosi e contaminati. Maghi, sacerdoti e sciamani divisero ciò che era puro e ciò che non lo era. Gli mostrarono il confine della religiosità: il sacro da una parte il profano dall’altra. Ed è proprio in quest’ultima categoria che rientravano le fave. Antichissime religioni credevano nel potere maligno e deleterio della pianta.

Oggi alcuni studiosi sostengono che tali le fave fossero collegate con l’aldilà e quindi con le divinità infere. Tra questi, l’autore del libro “Il tabù delle fave. Pitagora e la ricerca del limite, Giovanni Sole ritiene che: “Erano considerate piante magiche, dotate di una potenza misteriosa e cosmica, sede di esseri soprannaturali in grado di influenzare negativamente o positivamente la vita degli uomini. Erano un cibo sacro agli dei dell’oltretomba o un cibo caro ai morti e per questo oggetto di tabù”. Spiega che mangiare cibi vietati equivaleva a sfidare gli dei. Forze pericolose e invincibili si sarebbero scatenate contro i trasgressori.

Altri esperti invece appoggiano la tesi secondo cui le fave erano proibite per motivi igienici. Per prevenzione sanitaria erano vietate in quanto dannose e nocive. Aristotele racconta che erano proibite perché richiamavano i genitali maschili, con un particolare riferimento ai semi. Mangiare questa pianta era come cibarsi dei testicoli umani. Ciò non era assolutamente ammesso. Ma c’è anche chi collegava le fave con il feto dei topi o con le mestruazioni delle donne, richiamandone l’odore.

Anche Plinio il Vecchio nella “Historia naturalis” esprime un giudizio sulla pianta: intorpidisce i sensi e provoca visioni. Oltre che offuscare il senno, rendeva anche più deboli chi la mangiava. Portava a perdita della ragione e indebolimento delle forze. È poco probabile l’idea che all’epoca di Pitagora si fosse già manifestata una malattia che colpirà l’Ottocento europeo: il favismo.

Febbre, pallore, ittero e dolore addominale sono i sintomi del morbo. Si tratta di una forma di anemia derivante proprio dall’ingestione di fave che provoca indebolimento fisico generale. Ancora oggi però non sono ben chiare le circostanze particolari e le tipologie di individui attaccati. Rimane in ogni caso altamente improbabile che i pitagorici nel VI secolo A.C. potessero essere a conoscenza di tali dati medici. Più plausibile è il collegamento con il regno dei morti

Ma non solo ai pitagorici era vietato mangiare le fave. Non era concesso loro nemmeno di toccarle. E proprio per colpa di questo legume il filosofo morì a Metaponto. Narra Diogene che Cilone, tiranno di Crotone e nemico giurato del teoreta, scatenò una rivolta contro di lui. Proprio durante la fuga, Pitagora si trovò davanti a un campo di fave. Attraversarlo era l’unica scappatoia possibile. O superava il tabù delle fave o altrimenti sarebbe stato preso e ucciso dai sicari che velocemente lo stavano raggiungendo. Preferì essere decapitato dai suoi nemici piuttosto che smascherare un tabù. Ancora una volta a vincere fu la religione: quella che per noi oggi sembra un’assurda credenza per Pitagora era verità reale e oggettiva.

 

FONTI

Giovanni Sole, “Il tabù delle fave. Pitagora e la ricerca del limite”, Rubbettino, 2004

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