Inizia l’era della zuppa di pomodoro o di qualsiasi altro cibo che, solido o liquido che sia, serva a risvegliare le coscienze di una classe politica dormiente e occupata a guardare ad altro. Da quando, lo scorso ottobre, il celebre dipinto di Van Gogh I girasoli è diventato vittima di una dimostrazione ambientalista, in molti musei d’arte d’Europa è dilagata la protesta e molte opere sono state imbrattate dall’azione degli attivisti. Nei social è dilagata la protesta: è giusto manifestare in questo modo?
Dalla zuppa di pomodoro nulla di nuovo
Non è stata la vicenda dei girasoli di Van Gogh ad aver dato inizio a questo modo di manifestare: sono decenni che attivisti di cause differenti sfruttano l’arte, e la popolarità che la circonda, per portare l’attenzione dell’opinione pubblica su una determinata questione.
Nel 1914 Mary Richardson, giovane suffragista impegnata nella lotta per i diritti delle donne, aveva infierito dei tagli alla Venere Rokeby di Diego Velázquez come rivendicazione all’arresto di Emmeline Pankhurst, leader del movimento britannico delle suffragette. Solo qualche mese fa un giovane attivista aveva lanciato una torta contro la Gioconda in nome del pianeta terra. Succedeva in passato e succede oggi, quando la necessità di avviare delle politiche a favore dell’ambiente è più urgente che mai. Nulla di nuovo, quindi, anche se ogni volta le reazioni sbalordite che seguono a questi blitz le fanno sembrare come una bravata delle giovani generazioni, che proprio non sanno dove mettere la testa.
Esiste un modo giusto di protestare?
Il problema centrale da prendere in considerazione è che ogni forma di protesta, a prescindere di come e dove si svolge, suscita una polemica. I Fridays For Future non sono mai stati graditi perché una banda di ragazzini che salta la scuola per armarsi di cartelloni non è credibile; le manifestazioni di piazza creano scompiglio e bloccano il traffico; i blitz contro l’arte, invece, sono inutili e danneggiano un oggetto sacro (che sacro è solo all’occorrenza). Sorge naturale chiedersi quale possa essere la forma “giusta” di manifestare e catturare l’attenzione dell’opinione pubblica su un problema, la cui risoluzione (se davvero esiste ancora) non può più essere rimandata. L’impressione è che le azioni dimostrative a favore dell’ambiente siano sostenute solo quando hanno scarsa visibilità e una discreta partecipazione, quindi quando hanno una riuscita relativa. Il clima appare sempre come una motivazione secondaria per protestare e quando qualcuno lo fa, i lati negativi emergono immediatamente.
Quale reazione prevale?
Analizzando le reazioni al lancio della zuppa di pomodoro si può notare come il discorso si sia concentrato principalmente sulle conseguenze del gesto e non sul suo significato. Tralasciando il fatto che queste azioni hanno il solo scopo dimostrativo e non intendono creare un danno reale alle opere d’arte, che di fatto non sono state intaccate, esse non devono essere accostate al vandalismo. In un’intervista rilasciata dopo lancio della zuppa al pomodoro (metti link), l’attivista di Just Stop Oil ha tenuto a specificare che lo scopo della sua azione non è mai stata quello di rovinare l’opera in modo definitivo. «Dovrebbero tutti gettare zuppa sui quadri? Quello che stiamo facendo è avviare la conversazione in modo da poter porre le domande che contano».
Non si tratta, quindi, di un’azione spregiudicata ma di un atto pensato e ben calibrato. Consapevoli che il quadro era coperto da una lastra di vetro, l’azione si è intrisa di un significato molto più profondo e definirla una “bravata” risulta fuorviante e riduttivo.
È una forma di attivismo fine a se stesso?
Molte delle polemiche si sono incentrate sul fatto che una simile azione non può conciliarsi con l’obiettivo desiderato. Cosa c’entra un capolavoro dell’arte con il cambiamento climatico? Apparentemente nulla. L’arte non è complice di nessuno e non concorre a incentivare atteggiamenti contro l’ambiente, ma ha un valore economico e sociale così importante da renderla, sotto certi aspetti, un ottimo bersaglio. Il punto centrale del discorso è che questi attacchi non producono danni, ma sfruttano la popolarità dell’opera e la “sensibilità mainstream” del momento per rompere la quotidianità dell’opinione pubblica e creare sensibilizzazione su una questione. L’opera, quindi, si pone involontariamente a servizio di una causa maggiore nel tentativo di avviare una conversazione su un argomento che necessita di essere affrontato.
Se imbrattare un’opera d’arte non è il modo migliore per sensibilizzare sulla questione ambientale, allora si troveranno altri modi per farlo, a patto che venga conservata la natura non violenta delle manifestazioni. Ma dalla vicenda emerge una domanda: cosa siamo disposti a sacrificare? Se il valore socio-economico di un’opera d’arte è troppo grande per essere sacrificato, quale alternativa migliore abbiamo per svegliare le coscienze e salvare il pianeta?
Cosa recepiscono le istituzioni del disagio climatico?
La COP27 che si è tenuta a Sharm el-Sheikk, Egitto, nel novembre 2022, ha portato a delle conclusioni molto positive. Per la prima volta dall’inizio di queste assemblee globali si è raggiunto un accordo su il “loss and damage” (perdita e danno), un documento che verrà reso operativo nel prossimo periodo e che sancisce un passo verso la giustizia climatica. Un simile provvedimento, infatti, porterà all’istituzione di una copertura finanziaria a disposizione dei paesi MAPA (Most affected people and areas) come forma di risarcimento per i danni causati dai paesi occidentali, responsabili di gran parte dell’inquinamento mondiale. Se alle parole seguiranno i fatti, l’istituzione di un simile documento crea speranza. Aspetti meno positivi riguardano gli impegni di riduzione delle emissioni per poter restare entro gli 1,5 gradi di aumento della temperatura. Se non si manifesta l’impegno di ridurre le emissioni, nessun fondo potrà riparare i danni causati all’ambiente. La mancata risoluzione di questo problema testimonia la generale reticenza a trattare la questione climatica come una crisi a tutti gli effetti.
La necessità di agire
La verità è che serve un ripensamento generale del nostro modo di vivere e iniziare a mettere in discussione le nostre azioni quotidiane può essere un modo per compiere un passo verso la risoluzione del problema, sempre che questa esisti ancora. Criticare le azioni degli attivisti è facile, ma è assai più complesso comunicare in modo adeguato la gravità della situazione. Certe forme di protesta trovano consenso, altre non lo fanno ma le proteste, per il solo fatto di essere tali, devono creare disagio (che non è sinonimo di violenza). Diventa quindi fondamentale parlare del problema e affrontare la questione con la massima serietà, sia come istituzioni che come semplici cittadini.
FONTI
Anna Meldolesi e Chiara Lalli, Van Gogh, Monet e la zuppa di pomodoro. Qual è il modo giusto per protestare?, «Sette: il settimanale del Corriere della Sera», 15 novembre 2022, p. 36-37