Vivere in strada è quanto di più lontano ci possa essere da quel “benessere fisico, mentale e sociale” di cui parla l’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Solo in Italia, secondo la più recente rilevazione dell’Istat, sarebbero oltre novantasei mila le persone costrette a vivere per strada e senza una fissa dimora. Li chiamano “il popolo degli invisibili”, ma è davvero l’espressione giusta per dare conto di una realtà simile?
Basta chiamare i senzatetto “invisibili”
La parola “invisibile” si usa per indicare qualcosa di incorporeo, che non si manifesta materialmente e che non riesce ad essere percepito con la vista. Eppure, questa parola viene usata per descrivere quella realtà così grande e così rumorosa che affolla le strade di ogni città d’Italia e che comprende migliaia e migliaia di persone. La scelta delle parole da usare per raccontare la vita di altri non è mai una questione marginale perché le parole sono la precisa manifestazione del pensiero di chi scrive e veicolano un’immagine ben precisa della realtà che si vuole definire.
Le parole plasmano il modo di vedere le cose e usarle nel modo opportuno, soprattutto in casi come questi, permette di comprendere in modo più veritiero la realtà dei senzatetto in Italia. Quelle 96.000 persone, e forse anche di più, sono tutt’altro che invisibili perché ingombrano le strade nel senso più letterale del termine. Il corpo di chi finisce per strada è esposto e sotto gli occhi di tutti. Forse la parola “invisibile” si addice meglio a descrivere l’opinione e il desideriodi chi osserva questa realtà e non di chi la vive.
Cosa vuol dire vivere in strada?
È bene specificare che il censimento dell’Istat necessita una serie di accortezze, prima di essere analizzato nello specifico, perché racconta una verità parziale. Al suo interno, infatti, non viene operata una distinzione tra “persone senza fissa dimora” e “persone senzatetto”. Le prime sono coloro che non abitano in un luogo sufficientemente a lungo da potervi registrate la residenza, le seconde, invece, sono coloro che non hanno proprio un domicilio. Quest’ultime sono spesso iscritte all’anagrafe attraverso un indirizzo fittizio che fa riferimento a delle associazioni che operano in loro sostegno, e che permette loro di usufruire di alcuni servizi basilari come il diritto di ricevere la posta o di possedere una tessera sanitaria.
Il limite di questo tipo di rivelazione si cela proprio in questo punto: non tutte le persone che vivono in condizioni di marginalità riescono a iscriversi all’anagrafe e, viceversa, non tutti coloro che richiedono una residenza fittizia vivono in condizioni di disagio sociale o economico. Perciò, il lavoro dell’Istat, per quanto prezioso, non può ritenersi del tutto esaustivo per raccontare una realtà complessa e piena di sfumature come quella dei senzatetto.
Dell’indagine è emerso che dei 96.000 senzatetto, 65.407 sono uomini e circa 30.790 sono donne. Di questi, il 38% è rappresentato da cittadini stranieri provenienti, in oltre la metà dei casi, dal continente africano. L’età media generale è di 41,6 anni (gli italiani sfiorano i 45, mentre per gli stranieri l’età si abbassa fino a raggiungere i 32). La maggior parte dei senzatetto vive nelle grandi città del paese come Roma, Milano, Torino, Napoli e Foggia, ma la rilevazione ha coinvolto oltre due mila comuni per cui si deduce che il fenomeno riguardi tutta la Penisola.
Il privilegio della cura
La vita di strada porta con sé difficoltà e sofferenze enormi e spesso causa l’insorgere di patologie. Certo, a volte sono proprio i disturbi mentali a portare le persone a vivere per strada, ma è indubbio affermare che un simile stile di vita comporti traumi ulteriori e rischi per la salute psicologica e fisica. Il problema è che l’accesso alle cure non è garantito, se non da associazioni di volontariato che si prodigano a servizio di queste persone o dal pronto soccorso. Per questo motivo in molte città è nata una realtà sanitaria “parallela” che si mette a disposizione di chi, per un motivo o per l’altro, viene escluso dal Servizio sanitario nazionale.
A Torino, ad esempio, opera l’ambulatorio Roberto Gamba, il servizio medico organizzato dal Sermig o l’assistenza medica fornita dal poliambulatorio dell’associazione “Camminare insieme”. Queste realtà non mettono a disposizione solamente visite basilari, ma anche visite specialistiche, cure odontoiatriche, cure pediatriche e altri servizi che vanno a colmare il vuoto lasciato dalla mancanza di accesso al servizio sanitario nazionale.
Ma questo non è tutto perché recentemente l’Osservatorio sulla povertà sanitaria del Banco Farmaceutico ha stimato che la tendenza a sottrarsi alle cure (per cause esterne e non per una decisione personale) è in aumento. Solo lo scorso anno oltre quattro milioni di persone, quindi circa il 7% della popolazione, ha rinunciato alle cure di cui aveva bisogno. Le cause principali sono identificabili nelle lunghe liste d’attesa, che spesso inducono i pazienti a rivolgersi a strutture private, e nella povertà economica che sta colpendo sempre più persone.
La strada uccide tutto l’anno
La cronaca giornalistica ha la tendenza a trattare il fenomeno della vita di strada solo nei mesi invernali, quando le basse temperature rendono il mondo esterno un posto inabitabile. Ma la strada è invivibile tutto l’anno, e i mesi caldi non sono meno duri di quelli di quelli freddi. Le temperature eccessive delle ultime estati, infatti, mettono a rischio la salute ancor più del gelo invernale proprio perché più difficili da contrastare. Solo lo scorso anno sono morte ben 393 persone che vivono in strada, di cui 109 solo in estate (in inverno sono state ottantasei).
In molti casi i piani d’emergenza a sostegno di chi vive in strada tendono a concentrarsi solo in un dato periodo dell’anno, per poi terminare con il sopraggiungere della bella stagione. È necessario un intervento strutturale che affronti l’emergenza tutto l’anno e con le rispettive differenze che ogni stagione porta con sé, altrimenti si rischia di condannare le persone senzatetto a una vita alla mercé delle criminalità, delle bande o a una morte silenziosa e invisibile.
Si ritorna ancora una volta alla parola “invisibile”, che sembra essere costantemente legata alla realtà che si è cercato di descrivere. Giunti a questo punto è chiaro che la vita di strada non ha nulla a che fare che l’invisibilità e che, più che parlare di “strage degli invisibili”, si dovrebbe parlare di “strage invisibile”.
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