Antonio Canova nasce il primo novembre 1757 in una famiglia di tagliapietre e scalpellini, padroni delle cave di Possagno. Si può dunque affermare che la vena scultorea accompagna il piccolo Antonio fin da subito; oltretutto, il padre muore quando Antonio è ancora un bambino di quattro anni e dunque la madre lo affida al nonno, anche lui tagliapietre. Antonio si impratichisce fin da bambino a scolpire la pietra per le costruzioni e ornamenti del luogo, ed è questa pratica infantile a rendergli il lavoro sempre più facile nel corso del tempo e a costruirgli la strada verso il suo destino artistico. Si può forse fare un’associazione interessante con la figura del grande Michelangelo Buonarroti, che ci tiene a far sapere ai posteri l’origine quasi mistica del suo talento, allattato in fasce da una balia figlia e moglie di scalpellini.
Il percorso a Venezia
Ma se ancora è vagamente prevedibile l’esito del percorso artistico di Michelangelo, per Canova la situazione diventa più complessa: è incredibile come, in un contesto come quello della Venezia del secondo Settecento, luogo in cui Antonio si ritrova dapprima a lavorare (precisamente nella bottega dei Torretti), si sia potuto esprimere un genio artistico tanto unico quanto precoce. La scultura veneziana non è certo morta al tempo, ma vi sono poche occasioni di lavorare il marmo che non siano per decorazione, e la maggior parte delle sculture realizzate ex novo sono costituite da divinità o pastorelle prese dalle pitture del Tiepolo e pietrificate alla buona.
L’unica nota realmente positiva è costituita dall’eredità di Antonio Corradini, scultore veneto rimasto celebre per i panneggi delle sue statue velate, modellati sensualmente sulla forma del corpo. Canova si distacca dal virtuosismo del Corradini ma lo fa solo a parole, perché ne resta in realtà affascinato e lo praticherà a sua volta. Lo studio minuzioso delle pieghe delle vesti, come se da esse dipendesse l’espressione dell’opera, l’attenzione alla resa delle superfici, trattate diversamente a seconda della volontà di resa della pelle umana o della morbidezza della stoffa, sono tutte caratteristiche che Canova rende sue e pratica con costanza in ogni sua opera.
L’amore per l’antico
Importante non dare credito a chi sostiene che la scultura antica perda rilievo in questa epoca artistica. Tra Bernini e Canova essa ha al contrario passato una delle sue più intense stagioni, rinnovata certamente dal contributo di Canova stesso, che giunge a Roma nel novembre del 1779 e legge Istruzione Elementare per gli Studiosi di Scoltura di Francesco Carradori (colui che ha scolpito le braccia della Venere Medici), manuale in cui si descrivono le tecniche per far rivivere una statua antica. Canova trae importanti insegnamenti da questa lettura, comprendendo immediatamente il potere di suggestione esercitato dall’antico.
Canova regna presto nella rappresentazione dell’antico. Viene indetta una competizione tra Canova e Giuseppe Angelini, altro scultore noto all’epoca, che però sfigura presentando Minerva pacifica, giudicata di qualità inferiore ad Apollo che si incorona di Canova. Inoltre, questa vittoria rappresenta anche la supremazia dello scultore puro rispetto al restauratore-copista che è Angelini.
In una prima fase Canova si rifiuta di eseguire copie in marmo dall’antico e, nonostante l’apparente mitezza, viene giudicato superbo per questo. Ma la decisione di Canova non dura a lungo. Presto è infatti pronto per Teseo trionfante sul Minotauro, un vero e proprio manifesto della sua arte nuova. L’opera, a lungo esposta alle intemperie, si presenta oggi estremamente rovinata, quasi di più rispetto alle opere antiche che Canova ha guardato e analizzato per prendere ispirazione nella realizzazione di questa scultura. Canova ci tiene a realizzare un soggetto antico descritto dalle letteratura classica ma non rappresentato in sculture antiche sopravvissute fino a noi, e fa questo cercando di immaginare il soggetto di volta in volta scelto come l’avrebbe trattato, secondo lui, un artista antico. Ecco perché, nell’opera sopra citata, Teseo ha una clava invece di una spada.
La fama crescente e il perfezionismo ‘patologico’
Canova non si lascia intimidire dai nomi altisonanti che, man mano che la sua fama si acuisce, richiedono la sua opera. Egli ha a cuore la sua libertà, la sua ricerca di perfezione e la sua fama, l’unico guadagno di cui sarà sempre avido. Non importa dunque a chi consegna la sua opera, purché il committente si faccia custode dell’opera stessa mettendola al servizio della curiosità e dell’ammirazione del mondo. Ecco che allora comprendiamo perchè Canova rifiuti le offerte del re di Polonia, della zarina di Russia o persino di Napoleone per mantenere intatta la propria autonomia.
Ciò che mi rende più impaziente è vedere l’effetto che l’opera produrrà sulle anime del pubblico.
Non si può comunque dire che Canova non abbia mai ceduto alle implorazioni dei propri clienti. Nel catalogo delle sue opere ritroviamo più versioni della medesima opera (due Amore e Psiche giacenti, tre Veneri Italiche, quattro versioni di Ebe), ed è chiaro che il perfezionismo ‘patologico’ di Canova abbia giocato un ruolo nell’offerta al mondo di una versione sempre migliorata di uno stesso concetto passibile di perfezionarsi all’infinito. Bisogna ricordarsi però che ripetere un’opera richiede meno tempo che inventare e completarne una nuova e diversa, ed ecco dunque perché Canova sovente aderisce alle richieste che gli vengono poste dai più svariati committenti.
La sacralità dell’arte di Canova
Quella di Canova è un’arte che ha una pretesa che non lascia indifferenti gli spettatori delle sue opere. Non è solo la fama del nome che trasforma il luogo dove si trova una sua opera in un sacrario, ma sono proprio le sue statue che vogliono essere guardate da sole. Quando osserviamo le opere di Canova in un museo abbiamo, paradossalmente, l’effetto opposto: sembra di trovarsi di fronte a un deposito di gessi, una stanza del museo di Possagno. L’idea dunque della sala canoviana, del tempio dedicato all’opera, è un’idea che si presenta in diverse circostanze: si pensi al tempietto costruito a Napoli per accogliere Adone e Venere, oppure il tempio a Woburn Abbey, in Inghilterra, che ospita il secondo gruppo delle Tre Grazie (anche se poi finiranno al Victoria and Albert Museum di Londra).
FONTI
Marco Fabio Apolloni, Canova, 2019, Giunti Editore
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