L’abitudine di depositare querele contro i giornalisti per diffamazione a scopo intimidatorio è sempre più diffusa. Serve evidenziare quanto questa cosa sia nociva per la libertà di stampa e d’informazione.
Questa corte non è un bancomat
È di casa, ormai, Matteo Renzi, nel tribunale di Firenze. Non tanto per il chiacchierato processo Open (che lo vede imputato insieme ad altri per finanziamento illecito), ma piuttosto per le numerose querele che, con cadenza settimanale, deposita. Gli obiettivi principali sono giornalisti, opinionisti, suoi detrattori in generale. Giornalisti però in particolare. Non è un’abitudine solo di Renzi, ma è di certo un ambito in cui si dimostra particolarmente esperto. Per questo motivo nella sentenza del 6 marzo la giudice Susanna Zanda ha ritenuto fosse il caso di specificare che Renzi non deve “usare il tribunale civile come una sorta di bancomat dal quale attingere somme per il proprio sostentamento”. Nello specifico Renzi aveva chiesto un risarcimento di 200mila euro per un articolo del 2019 apparso sul «Corriere della Sera» proprio sulle vicende della fondazione Open.
È stato invece condannato a risarcire 16mila euro di spese processuali all’editore, al direttore e alla giornalista autrice dell’articolo in questione. Analogamente, a inizio febbraio il magistrato Zanda aveva respinto la richiesta di Renzi di 500mila euro al direttore del «Fatto Quotidiano» Marco Travaglio. In questo caso la presunta diffamazione riguardava un rotolo di carta igienica con impressa l’immagine dell’ex premier apparso in collegamento tv. Anche in questo caso Renzi ha dovuto pagare 42mila euro di spese processuali.
Da un punto di vista legale
Il reato di diffamazione consiste nell’offendere la reputazione di qualcun altro in una comunicazione. Può essere aggravata dal fatto di essere recata con mezzi di stampa o pubblicità. In questo caso la pena può consistere in reclusione da sei mesi a tre anni o in una multa non inferiore a 516 euro. Per finire le precisazioni in ambito giuridico, è bene ricordare che il giudice dovrebbe essere una figura neutra e imparziale, in nessun modo tenuta a esprimere i propri commenti personali extra-giudiziari.
A ogni modo, a livello internazionale si è diffusa l’abitudine di accusare di diffamazione in particolare giornalisti, blogger e attivisti. Il termine utilizzato per indicare questa pratica è “Slapp”, che sta per Strategic lawsuit against public participation, cioè “causa strategica contro la partecipazione pubblica”. Lo scopo è fondamentalmente intimidatorio: sono infatti cause intentate da persone di potere e con la disponibilità economica di sostenere i costi del processo anche nel caso in cui non si vinca.
Gli effetti sulla libertà di stampa
Il risultato delle Slapp è una riduzione della libertà di stampa. Questo però viene mascherato nella veste di un’ordinaria e legittima rivendicazione civile in sede giudiziaria. Non si sottolinea abbastanza quella che spesso è la sproporzione tra le due parti in causa.
Negli Stati Uniti questo si è palesato durante la presidenza di Donald Trump. Lui stesso affermò all’inizio del suo mandato che i suoi oppositori non erano i Democratici, bensì gli organi di informazione.
Questa atmosfera intimidatoria ha delle conseguenze reali ed effettive sul lavoro giornalistico. Rischia infatti di tradursi in un’autocensura e nella scelta di evitare certe tematiche per non incappare in situazioni problematiche. I più esposti sono ovviamente i freelance: il fatto di non essere dipendenti di una testata implica che la responsabilità della pubblicazione (e di conseguenza quella legale, con annessi costi spesso proibitivi per la categoria), che di solito ricade anche su editore e direttore, sia tutta a carico del singolo giornalista.
Il caso Durigon, di nuovo
L’esempio sopracitato di Matteo Renzi non è che uno dei tanti. Molto più eclatante, e a tratti un po’ inquietante, è quello che è successo nello scontro tra il sottosegretario Durigon e il quotidiano «Domani». E già il fatto che ci sia uno scontro tra un membro del governo e un organo di stampa è, sotto molti aspetti, indicativo. Dopo le inchieste su Durigon e sui suoi presunti legami con la ‘Ndrangheta, il 3 marzo i carabinieri si sono recati in redazione per effettuare il sequestro di un articolo, peraltro già online.
Lo scopo della visita era intimidatorio. Infatti, il 15 marzo, riporta «Domani», il procuratore ha dichiarato improprio e invalido il sequestro. È l’ottava “querela temeraria” – traduzione all’italiana di Slapp – del politico leghista contro il quotidiano. Questa storia però non è passata in sordina e ha attirato l’attenzione della Federazione europea dei giornalisti (EFJ), che parla di una “tendenza allarmante” in Italia.
Chi di querela colpisce…
Tutto questo è molto coerente con il quadro presentato dall’organizzazione internazionale “Reporter senza Frontiere”. Ogni anno viene pubblicato l’indice della libertà di stampa in 180 diversi stati del mondo. La ricerca si svolge analizzando, mediante questionari e interviste, il grado di autocensura, la legislazione vigente, l’indipendenza, il pluralismo delle fonti, il numero di giornalisti che hanno subìto minacce e altri parametri connessi. L’Italia nel 2022 si trovava al cinquantottesimo posto, e ha perso ben diciassette posizioni rispetto all’anno precedente. Le cause sono principalmente due. Da un lato c’è il grande numero di giornalisti sotto scorta per minacce ricevute dalla criminalità organizzata. Dall’altro proprio le “querele temerarie” da parte dei politici.
Per questo motivo le sentenze – sebbene con commenti insolitamente sopra le righe – emesse dal tribunale di Firenze negli scorsi mesi segnano, forse, l’inizio di un cambio di prospettiva. La giudice Zanda, infatti, oltre a occuparsi delle querele di Renzi, in data 1 marzo ha anche assolto Mario Calabresi, ex direttore di «Repubblica», e il giornalista Claudio Gatti, querelati per diffamazione. Ma oltre all’assoluzione ha condannato il querelante “al pagamento del doppio delle spese legali a titolo di indennizzo per abuso del processo”. Che queste “sentenze temerarie” non possano scoraggiare le querele intimidatorie ai giornalisti?