La guerra è finita. O almeno così sembra. La sera dell’8 settembre 1943 il capo di governo Badoglio annuncia l’Armistizio con i Paesi Alleati, tra cui la Germania. Il compito dei soldati italiani sembrerebbe quello di liberare l’Italia dalle truppe nazifasciste. Nasce così la Resistenza partigiana che vede come protagonisti sia uomini che donne. Poveri e ricchi. Questo è solo l’inizio di uno dei periodi più violenti della storia d’Italia.
Benedetta Tobagi, scrittrice e storica, ci permette di conoscere il fenomeno della Resistenza e dei partigiani attraverso le pagine del suo libro, pubblicato da Einaudi nel 2022, intitolato La Resistenza delle Donne. Il romanzo, o meglio saggio, ci fa addentrare in quell’atmosfera di guerra che tutti noi tristemente conosciamo, ma lo fa dandoci nuove chiavi di lettura. L’autrice si è adoperata nella ricerca di storie, testimonianze e fotografie, consultando decine di archivi storici, con l’intento di restituire al mondo tutte le voci delle donne partigiane, voci silenziate poiché sconvenienti, rubate dal tempo, di cui non rimane che un sordo eco.
Sai chi sei?
Sai a cosa sei chiamata?
Per cosa vale la pena vivere o morire?
Che cosa è giusto fare?
Rompere con clamore o resistere in silenzio nel quotidiano. Tuffarsi al centro del campo di battaglia o restare ai margini – parete, pilastro, confine, protezione; grembo e custode del dolore degli altri. O entrambe le cose?
La Resistenza delle Donne è innanzitutto un libro che racchiude vite, tragedie, destini, speranze, amori e rinascite. Tantissimi nomi si susseguono, ognuno con la propria storia, con il proprio dolore personale, intimo e quotidiano, anche se non manca mai la speranza, che diviene il motore dell’esistenza di ciascuna delle protagoniste.
Per le donne, aderire alla Resistenza assume una vasta gamma di significati, tra cui la possibilità di sperimentare, rompere gli schemi, infrangere tabù, sentire di avere il diritto di esistere. Riappropriarsi del proprio corpo. Trovare riscatto da una condizione di miseria e violenza. Diventa un modo per eliminare le etichette e affermare la propria identità, imbracciando anche il fucile se serve. Ma, soprattutto, diventa una rivoluzione interiore, una liberazione, un punto di rottura e di rinascita per molte donne che, finalmente, possono sentirsi qualcuno.
La Resistenza civile e il “maternage” di massa
Le donne iniziano a combattere contro il fascismo in completa autonomia, nel modo che sentono più congeniale: attraverso la protezione e l’accudimento. Offrono un rifugio ai soldati che scappano dalla guerra, cucinano i pochi viveri di cui dispongono pur di sfamarli e cuciono per loro abiti civili che possano passare inosservati. Questi gesti semplici ma allo stesso tempo straordinari fanno parte di un’operazione diffusasi su larga scala, che coinvolge donne di ogni ceto sociale, dalla contadina alla studentessa benestante. Un’impresa che è stata a lungo rimossa dalla narrazione del passato, poiché non in linea con la retorica militarista ed eroica della guerra, forse perché le protagoniste sono “soltanto” donne. E invece rappresenta una delle prime forme di Resistenza civile.
L’abitudine alla cura delle donne oltrepassa i legami di sangue, abbandonando l’ambiente domestico per accogliere e assistere soldati in guerra che hanno bisogno d’aiuto. Ogni uomo in pericolo per loro rappresenta un possibile figlio, marito, padre e fratello. Questo fenomeno viene chiamato dalla storica Anna Bravo maternage di massa. Molte donne sminuiscono questi importanti gesti, ai quali parecchi uomini devono, di fatto, la vita: sostengono di non aver fatto nulla di così importante. In realtà le loro scelte, oltre ad avere un profondo significato politico, sono estremamente coraggiose. Infatti, quelle donne si sono esposte a rischi enormi, come la tortura e la pena di morte.
Un ulteriore esempio di maternage è rappresentato dalla cura dei morti e dall’organizzazione di funerali che restituissero dignità alla vita e sacralità agli affetti. Ne La Resistenza delle Donne, Benedetta Tobagi ci esorta a riconoscere l’importanza del maternage di massa, senza ridurre il significato della Resistenza femminile al mero archetipo materno. Le donne, fin da subito, sono state infatti anche protagoniste di diverse forme di lotta.
Tanti modi per combattere l’Angelo del focolare
Le donne che hanno scelto di combattere hanno declinato a modo loro l’impegno nei confronti della Resistenza e della banda. Chi cucinando, chi cucendo vestiti, chi facendo la staffetta e chi, invece, sparando. L’importante è stato combattere tutte insieme, armate o disarmate, in gonna o in pantaloni, rompendo i codici o reinventandoli. Le partigiane hanno fatto così il grande salto: da donne recluse in casa, a combattenti trasgressive, che hanno vissuto all’interno delle bande con i partigiani. L’Angelo del focolare è stato ucciso.
In un capitolo de La Resistenza delle Donne si parla delle bande partigiane e del sessismo dilagante all’interno di esse. Infatti, le donne hanno dovuto lottare e insistere per far parte della Resistenza partigiana mettendo a tacere pregiudizi di ogni sorta. Le donne che hanno fatto ingresso in una brigata hanno visto infangata la loro reputazione perché veniva messa in discussione perfino la loro verginità. E in una società sessuofobica come quella di allora la castità era importantissima.
Il motivo fondamentale per cui i comandanti partigiani faticavano ad accettare ragazze nella banda sembrerebbe legato al fatto che le donne potessero rappresentare una tentazione in grado di provocare gli istinti del maschio predatore, distraendolo dalla guerra. Un altro pregiudizio che gravava sulle partigiane era legato alla concezione secondo la quale le donne sarebbero fisicamente e moralmente più deboli dei maschi. Ed è proprio a causa di quest’ultimo pregiudizio che l’emancipazione delle resistenti avvenne dimostrando di valere quanto un uomo, comportandosi esattamente come ci si aspetterebbe da esso. Per esempio, portare le armi divenne, per la donna, l’unico modo per porsi alla pari con i propri compagni partigiani.
Le donne partigiane furono abili nel volgere a favore della lotta gli stereotipi che gravano su di esse. Le staffette che nascondevano nel reggiseno la dinamite, per esempio, lo fecero indossando rossetto rosso e tacchi alti. Chi mai avrebbe potuto sospettare di creature così femminili e angeliche? Oppure, il fatto che queste donne volutamente appariscenti venissero considerate prostitute, forniva loro il pretesto per spostarsi da un luogo all’altro senza destare sospetti.
Le torture e il trauma silenzioso dello stupro
Nel libro La Resistenza delle Donne sono numerose le testimonianze di sprazzi della vita quotidiana di partigiani e partigiane. Al terrore della guerra, alla solitudine e alla morte si affiancano momenti passati in allegria attorno a un fuoco acceso, bevendo vino e cantando canzoni per darsi forza. Ci sono pure gli amori nati durante la Resistenza, anche se le relazioni tra partigiani non erano ben viste. E poi c’è qualcosa che è ancor peggio della morte, ovvero le torture inflitte dai nazisti per ottenere informazioni sulla Resistenza. Ogni città d’Italia ha il suo luogo oscuro, dove avvengono crudeltà inimmaginabili.
Lo scopo delle torture, ancor prima di passare sul piano fisico, è quello di annientare la vittima psicologicamente per renderla fragile e sottomessa. Ciò avviene attraverso l’incertezza, le umiliazioni e l’isolamento. Alle partigiane è riservato un trattamento particolarmente perverso.
Le donne partigiane sono estremamente inibite e pudiche. Questo pudore in mano ai torturatori diventa un’arma letale. I carcerieri costringono le prigioniere a denudarsi per poi schernire il loro corpo. Molte donne nelle loro testimonianze ammettono di preferire le scosse elettriche indotte dagli elettrodi posizionati in zone sensibili, come il seno e la vagina, piuttosto che essere spogliate.
Il ricordo delle torture spalanca la porta al fantasma più ingombrante della guerra delle donne. Lo stupro. Tutt’ora taciuto, negato, rimosso. Un modo per uccidere l’anima ancor prima del corpo.
Fa freddo. Lo sa, ma non lo sente più. Ascolta il rimbombo dei tacchi degli stivali delle guardie sul pavimento di pietra del corridoio. Conta i passi. Si concentra su quello perché non riesce a percepire più nemmeno il battito del proprio cuore. Divento pazza, pensa. Un guscio vuoto. Indolenzito. Sporco. Così si sente. Tiene gli occhi chiusi, anche se il buio, nella cella lurida, è quasi totale. Novantadue, novantatré, novantaquattro. Fermo. Accendino. Il sentore della sigaretta le riporta in un secondo il sapore di quello, le sale il vomito, i conati la spaccano in due, il liquido acido le brucia la gola ma niente, non mangia da giorni, non ce la fa. Carezza col dito il bordo tagliente di una scheggia di vetro. Non l’hanno mica vista, non l’avrebbero mai lasciata lì: non puoi morire quando vuoi tu. È il suo tesoro. Il suo talismano. Sa che potrebbe. Stava per, ma non ha potuto. Ha visto il faccino di suo figlio e non è riuscita a premere fino in fondo. Resisto per lui, vivrò per lui, pensa, fintanto che sarà necessario. Ma dentro è già morta.
L’esperienza della tortura e dello stupro si traducono nella vita delle partigiane in una parlata asettica, quasi silenziosa. Il linguaggio delle sopravvissute diventa il riflesso della dissociazione indotta dal trauma e per ricominciare a vivere è necessario che le donne rinchiudano questi traumi dentro sé. La rabbia, l’umiliazione e l’odio iniziano a scavare tunnel segreti nel corpo, per rimanervi rinchiusi. Un corpo che ora grida e non si fa più toccare. Un rumore, un sapore o un odore possono scatenare incubi che trovano la propria liberazione durante il sonno. Il trauma diviene un demone che si nutre di silenzio, poiché solo tacendo lo stupro e le sevizie non diventano reali.
La Liberazione e il fantasma dell’Angelo del focolare
Il 25 Aprile 1945 arriva il tanto agognato giorno della Liberazione. Un giorno tanto atteso dalla Resistenza partigiana, che porta con sé numerosi sentimenti contradditori. Da una parte la gioia e la felicità autentica per la fine della guerra. Ma dall’altra, soprattutto nelle partigiane, un senso di profonda tristezza. Un sentimento inconfessabile poiché dovuto al rimpianto di un periodo irripetibile che si conclude. Per le donne finisce la trasgressione e l’incredibile senso di autonomia e libertà. La loro vita non sarebbe più stata straordinaria e sarebbero tornate ad essere nessuno. Questo flebile presagio trova spazio nella realtà.
Infatti, ben presto, inizia l’epurazione delle donne dalla memoria pubblica della Resistenza partigiana, durante le sfilate in piazza tenutesi nel giorno della Liberazione. Viene chiesto a loro di non partecipare, di rimanere nelle retrovie a cucinare o a cucire coccarde. È meglio che non si facciano vedere per non dare adito a spiacevoli pettegolezzi in modo tale da non infangare tutto il movimento dei partigiani. Molte decidono di obbedire, di stare zitte e buone, tornando ai loro consueti ruoli di madre, figlia e moglie. Nemmeno chiedono alle autorità il riconoscimento del proprio ruolo nella Resistenza partigiana poiché, in fondo, pensano di essere state irrilevanti. E se riconoscono di aver contribuito in qualche misura, per loro era tutto dovuto.
Così, le piazze si popolano di fantasmi, i fantasmi dell’Angelo del focolare. Donne vittime di quel modello educativo secondo il quale devono essere mansuete, modeste, paladine del sacrificio e del dono di sé. Devono sminuirsi riconducendo le loro gesta solamente a finalità altruistiche, sotterrando il loro desiderio di ambizione. Se sei femmina devi stare in secondo piano. Sono gli uomini ad aver lottato duramente, loro hanno solamente aiutato. Ed è proprio secondo questa mentalità diffusa che le donne si fanno piccole pur di non calpestare l’ipertrofico ego maschile. Guai, a privare gli uomini dello specchio dello sguardo femminile in cui ammirarsi.
Confusamente intuivo che iniziava un’altra battaglia: più lunga, più difficile, più estenuante, anche se meno cruenta. Si trattava ora di combattere non più contro la prepotenza, la crudeltà, la violenza – facili da individuare e odiare, – ma contro gli interessi che avrebbero subdolamente cercato di risorgere, contro abitudini che si sarebbero presto riaffermate, contro pregiudizi che non avrebbero voluto morire: tutte cose assai più vaghe, ingannevoli, sfuggenti. E si trattava inoltre di combattere tra di noi e dentro noi stessi, […]
L’ereditarietà del trauma e la catena da spezzare
Il saggio La Resistenza delle Donne si conclude con una significativa e profonda riflessione sull’ereditarietà del trauma, sulla possibilità di poter spezzare quella catena che ci tiene uniti al passato e sui legami di sangue, spesso ingombranti, da cui è possibile liberarsi. Non siamo, infatti, incatenati ai nostri antenati di sangue ma possiamo liberare loro e noi stessi, per fluire liberamente nella vita. Lasciando andare il peso del passato, in modo tale da poter vedere con più chiarezza il futuro. Ed ecco che avviene la liberazione nella Liberazione.
Non siamo inchiodati a pagare i conti in sospeso del sangue. Fedeli alla verità di ciò che è accaduto, possiamo sciogliere nodi antichi, sbriciolare i macigni, << liberare la stirpe >> , diceva Bert Hellinger. Possiamo prendere la rincorsa dal passato per spiccare il volo. Eleggere i nostri antenati – e antenate – spirituali tra coloro che possono aiutarci a dirigere meglio i nostri passi.