Esiste compromesso nell’estremo? È solo un ossimoro colmo di filosofia spicciola? Difficile a dirsi; un enigma la cui risoluzione richiederebbe ben più di qualche riga scritta. Forse addirittura ore di attenta riflessione; magari anche più di un centinaio. O almeno questo sembra trasparire dal film 127 ore di Danny Boyle, basato sulla vera storia di Aron Ralston narrata nel libro Between a Rock and a Hard Place.
Il film, distribuito in sala nel 2010 e candidato a ben 6 statuette alla cerimonia degli Oscar 2011 è un tour de force di circa 95 minuti dalla considerevole potenza espressiva, una ambigua lotta per la sopravvivenza che travalica la dimensione geografica delle location per scavare nell’intimità di una lotta contro se stessi.
Libertà e prigionia
Aron Ralston (James Franco) è un giovane alpinista statunitense di 27 anni. La sua passione per trekking, biking e avventura lo trasportano in un’esplorazione in solitaria in Utah, tra le brulle distese del Blue John Canyon. Una gita all’insegna di silenzio, fortunosi incontri e immersione nella natura selvaggia. Una gita quasi perfetta, destinata a trasformarsi in un incubo.
Un inaspettato incidente imprigiona Aron in una gola, bloccando il suo braccio destro tra una parete di roccia e un masso di notevoli dimensioni. Il tempo inizia inesorabilmente a scorrere, l’acqua e la lucidità a scarseggiare e le possibilità di salvezza diminuiscono sensibilmente di ora in ora.
Ossimori visivi
Giunto ormai alla sua nona regia, Danny Boyle torna dietro la macchina da presa con una pellicola matura, in grado di restituire l’abilità perfezionata dal cineasta britannico negli anni e tingere di nuove sfumature la poetica della sopravvivenza a lui tanto cara.
Uomo e ambiente esterno sono infatti, in un reciproco rapporto di co-dipendenza, due valori imprescindibili dell’equazione filmica boyliana e, al contempo, traccia a matita su cui sviluppare progetti e pensieri cinematografici differenti. La dipendenza di Trainspotting, la lente d’ingrandimento sociale di The Beach e The Millionaire, le atmosfere apocalittiche di 28 giorni dopo e Sunshine lasciano qui il posto ad un claustrofobico gioco di rimandi che fa dell’ossimoro visivo il proprio nucleo fondante.
127 ore è un film votato al contrasto. Immagini di folle, città rumorose e fiumi di traffico accompagnano fin dai primi istanti la preparazione dell’equipaggiamento e la partenza di Aron, dell’uno che fugge dai molti, alla ricerca della libertà, ma inconsapevolmente diretto verso una nuova gabbia. Un viaggio fisico e metaforico che trova riflesso nella raffinatezza estetica del suo ideatore; un viaggio che sceglie una regia e un montaggio fortemente dinamici per parlare di immobilità, alternando campi lunghissimi a piani ravvicinati simil GoPro e servendosi dello split screen per moltiplicare protagonista e prospettiva spettatoriale; strumenti atti di fatto a cancellare qualsiasi possibilità di solitaria e pacifica beatitudine, tanto narrativa quanto stilistica. Strumenti che mescolano silenzio e confusione, caos e calma, urbano e selvaggio a favore di un incontro dell’uomo con se stesso e con i propri fantasmi.
La prigione è dentro di noi
Ecco allora che la gola – prigione di Aron diviene spazio puramente simbolico e la lotta contro la roccia permette al giovane di immergersi in una dimensione altra, senza tempo, dove al presente immoto si oppone il libero fluire di passato e futuro. Una prigione quasi onirica in cui Aron rivive vecchi amori, rivede gli affetti e sogna (o forse prevede) la realizzazione di un futuro sfuggente. Una prigione a cui il mutevole sorriso di James Franco concede attimi di rimorso, di accettazione, di speranza a tratti disperata, che non vuole lasciare spazio al senso di rassegnazione che di minuto in minuto palesa la propria presenza sempre più ingombrante.
Infine la risoluzione, la risposta all’enigma. La neonata consapevolezza che a una duplice catena occorre una chiave, un sacrificio, della medesima fattura. Catarsi e liberazione richiedono che Aron scelga cosa immolare sulla strada della salvezza e del ritorno a casa. Un sacrificio in parte esteriore, quasi brutale nella sua spaventosa carnalità, ma allo stesso tempo un sacrificio intimo, di quella parte di sé che conduce inevitabilmente all’autodistruzione.
127 ore è la rivelazione di un passo indietro che permette di avanzare. È la scoperta di Aron di non significare di per se stesso ma di aver bisogno dell’altro. 127 ore è il compromesso nascosto nell’estremo. Quel compromesso che non conduce al rifiuto del proprio io, ma si concretizza nella semplicità di un gesto gentile e decisivo; fosse anche solo lasciare un biglietto per fare sapere a chi si ama la propria destinazione