Il cinema giapponese: le origini

Il cinema dell’estremo oriente ha sempre assunto un fascino particolare, ma purtroppo viene poco approfondita la sua lunga ed interessante storia. Questo ha una storia analoga a quella di altre cinematografiche mondiali, ma con alcune differenze che lo rendono unico nel suo genere.

Il cinema muto

Sebbene i primi esperimenti siano datati alla fine degli anni 20, è solamente a partire dal 1936 che gli studiosi pongono l’inizio della florida stagione del cinema sonoro in Giappone. La forte opposizione all’avvento di questa rivoluzione e di conseguenza ad un nuovo modo di fare cinema, proveniva dai cosiddetti benshigli oratori del cinema muto. Questi avevano un ruolo fondamentale di lettura dei dialoghi in contemporanea con la proiezione della pellicola nelle sale.

Il solido sistema industriale, organizzato verticalmente come quello statunitense, prevedeva un numero esiguo di case di produzione e soprattutto di compagnie che controllassero i criteri di realizzazione dei film, che dovevano rispettare alcune ferree regole. Il cinema giapponese degli anni 20-30 risultava infatti particolarmente affascinante per la capacità di mediare le tradizioni millenarie culturali con i modelli del cinema occidentale: in questo modo tutta la loro iconografia risultava molto più fruibile e comprensibile, anche se lontanissima dalla nostra.

Oatsurae Jirokichi Koshi (1931)

Diretto da regista Daisuke Itō questa pellicola in bianco e nero dei primissimi anni 30 racconta la storia di un celebre ladro catturato e giustiziato. Attraverso un gioco di parole possibile solo in giapponese, Daisuke Itō è stato soprannominato “amante del movimento“. Questo nome particolare deriva dal fatto che il regista prediligeva nelle sue pellicole, accattivanti e spesso inusuali movimenti della macchina da presa

Il film è incentrato sul futuro tragico di un protagonista dalla forte personalità, ma quello che più interessa del film rimane il linguaggio cinematografico. Il montaggio infatti mostra spesso particolari e dettagli che assumono un’importanza fondamentale. La sequenza d’apertura del film per esempio mostra diversi personaggi su un traghetto popolare. La frammentazione continua di immagini ravvicinate aiuta lo spettatore a focalizzarsi su dei gesti importanti e sulle loro successive evoluzioni nella narrazione.

Kimi to wakarete (1933)

Mikio Naruse dirige invece un film per certi aspetti melodrammatico, in cui vengono seguite le vicende di due geisha. Il regista qui utilizza diverse figure visive per comunicare emozioni differenti, spesso in linea con ciò che provano i personaggi stessi.

La più evidente di queste figure è l’avvicinamento e l’allontanamento della macchina da presa rispetto al soggetto principale. Questo avviene in parallelo con lo sviluppo drammatico della vicenda, facendo sì che l’empatia con i personaggi cresca in maniera esponenziale. Ma di certo non sarà la prima e l’ultima volta che un regista attua questo meccanismo: in Kimi to wakarete tuttavia sorprende il numero di volte che questa figura viene utilizzata.

Già nella scena iniziale la macchina da presa si avvicina e allontana rispettivamente 5 volte verso la protagonista, attraverso dei raccordi sempre più vicini, che arrivano a mostrare il primo piano del volto della donna per poi tornare ad una mezza figura.

Seishun no yume imaizuko (1932)

Un gruppo di giovani universitari passa al mondo del lavoro, ma deve fare i conti con i cambiamenti che ne deriveranno e cercare di salvare la loro amicizia. Yasujirō Ozu decide di raccontare una semplice vicenda, come nei suoi film precedenti, ma aggiungendo un tocco stilistico che differenzia questa pellicola dalle altre. 

Le soluzioni formali che mostrano l’estrema ricchezza del cinema giapponese degli anni 30 si possono verificare nella rinomata posizione bassa della macchina da presa, per aumentare il pathos narrativo e porre i personaggi “in alto” rispetto alla nostra posizione di spettatore. Ma anche e soprattutto l’utilizzo di inquadrature che mostrano dettagli in maniera insistente.

Anche questo film ricorre più volte alla frammentazione esagerata delle immagini ravvicinandole bruscamente sia con intenti comici che drammatici. Questo crea una sorta di “coniugazione visiva” di fatti narrativi, che vengono mostrati appositamente in maniera ravvicinata per evidenziarne il significato.

In conclusione, gli albori del cinema giapponese, in particolare quello muto, mostrano una serie di figure standard utilizzate da molti registi dell’epoca, ma che, grazie a diverse influenze stilistiche e non, iniziano ad assumere significati diversi. L’importante in questo cinema non è tanto il contenuto ma la forma, le storie avranno modo di svilupparsi più avanti grazie anche agli avvenimenti storici che caratterizzeranno il Giappone dagli anni 40 in poi.

Le contaminazioni culturali iniziano ad avere una certa importanza e la diffusione successiva delle pellicole dell’estremo oriente in occidente, ne sarà la prova lampante. Svariate culture e svariati modi di fare cinema iniziano a dialogare tra di loro, lasciando spazio ad una nuova dimensione nel linguaggio cinematografico mondiale, ma che in oriente riesce a mantenere una certa particolarità che lo caratterizzerà fino ai giorni nostri.

FONTI

Il cinema asiatico: L’estremo oriente, Dario Tomasi, 2011, Laterza

 

CREDITI  

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