Un Paese ricco e conservatore, che vive in uno stato di guerra perenne. Una politica instabile e sistematicamente nazionalista. Israele vede in questi mesi l’istaurarsi di un nuovo governo, il sesto in cinque anni, con a capo il suo premier più longevo, Benjamin Netanyahu. Ad appena due mesi dalle elezioni, l’esecutivo israeliano, sempre più spostato verso destra, fa discutere.
Israele: di conflitti, ricchezza e instabilità politica
Uno stato ricco e in conflitto
Israele è uno stato del Vicino Oriente, confinante con Libano, Siria, Giordania, Egitto e con i territori palestinesi (Cisgiordania e Striscia di Gaza). La capitale, Gerusalemme, non è universalmente riconosciuta, perché la parte orientale della città, rivendicata dai palestinesi come capitale del loro Stato, è stata occupata dagli israeliani durante la guerra dei sette giorni (1967). A livello economico, il Paese è il più avanzato del Vicino Oriente: nel 2022 il Prodotto Interno Lordo (PIL) ha raggiunto un tasso di crescita del 5,6%. La situazione politica è caratterizzata da una forte instabilità: il Paese vive in uno stato di perenne conflitto con la Palestina, a causa di dispute territoriali, motivi religiosi e di un’ostilità radicatasi nel tempo in seguito a conflitti che hanno coinvolto i due Paesi nei decenni scorsi.
L’instabilità politica
Politicamente Israele è una repubblica democratica parlamentare con un’unica camera, la Knesset, che ogni sette anni elegge il presidente della repubblica. L’attuale primo ministro è Benjamin Netanyahu, leader di Likud (partito nazionalista liberale e di destra), che ha vinto le ultime elezioni a novembre 2022. Quelle di novembre sono state le quinte elezioni tenutesi in quattro anni: un numero eccessivamente alto, indice di un’instabilità politica radicata nel Paese e della sua frammentazione. Per istituire un governo solido e duraturo, infatti, serve che un partito ottenga la maggioranza alla Knesset, corrispondente ad almeno 61 seggi. Alle elezioni tenutesi il primo di novembre, Netanyahu ha ottenuto 64 seggi su 120, numeri che dovrebbero garantire al premier una certa stabilità governativa. Secondo «Haaretz» la maggioranza è stata raggiunta grazie a un serratissimo accordo tra Likud e Potere Ebraico (partito sionista, religioso e nazionalista di Ben Gvir), appoggiati dal partito conservatore Shas (che rappresenta gli ebrei ortodossi di origine nordafricana e mediorientale), Ebraismo della Torah unito (conservatore e ultra-ortodosso), Sionismo religioso e Noam (due partiti di estrema destra).
The 37th Government of the State of Israel, headed by Prime Minister Benjamin Netanyahu. pic.twitter.com/Koc8S4F4xo
— Prime Minister of Israel (@IsraeliPM) December 29, 2022
Israele: una storia politica a destra
Benjamin Netanyahu è un simbolo: premier più longevo della storia di Israele, il 29 dicembre ha iniziato il suo sesto mandato (non consecutivo). Sempre presente nella Knesset, dopo un anno all’opposizione, alla fine del 2022 è tornato al potere. Il suo ritorno, così come la sua persistenza al governo, sono significativi della scena politica del paese. Le ultime elezioni sono infatti il simbolo innegabile di un fenomeno che perdura nella società israeliana dagli anni ’90: il permanere del predominio politico della destra, sionista e non. Ancora una volta i cittadini hanno dimostrato di volersi affidare a un’ideologia ben precisa, che può riassumersi nel desiderio di mantenere Israele in quanto stato ebraico. Questa ideologia si traduce in una politica ultranazionalista, conservatrice della cultura e religione ebraica e nel proseguimento dell’occupazione della Cisgiordania (e, di conseguenza, del conflitto con i palestinesi).
La posizione conservatrice ed etnocentrica, che è ancora oggi maggioritaria nel paese, è una discendente diretta del Sionismo Revisionista (movimento politico e culturale ebraico creato ai tempi del mandato britannico in Palestina). Il movimento aveva infatti lo scopo di creare uno Stato che riunisse gli ebrei della diaspora in Palestina. Il Sionismo Revisionista (assorbito nel ’48 dal partito Herut) mirava non solo all’istituzione di uno Stato ebraico all’interno del Mandato britannico di Palestina, ma anche all’unione di questo alla porzione transgiordana. L’obiettivo era infatti di unire in un solo stato la popolazione di cultura e religione ebraica e di farlo nel luogo in cui, secondo le scritture bibliche, si trovava l’antico Regno di Israele. Secondo questa visione nazionalista, il destino degli arabi di Giordania e, in generale, di Palestina, sarebbe stato quello di una vivere come una minoranza interna allo stato di Israele.
Il governo più a destra della storia di Israele
Una coalizione conservatrice e ultranazionalista
Dopo un anno caratterizzato da continui scontri e violenza tra israeliani e palestinesi, non è un caso che alla fine del 2022 si sia instaurato uno dei governi più a destra della storia di Israele. L’esecutivo è infatti fortemente conservatore, ultranazionalista e sionista. Accanto a Netanyahu, premier, nella coalizione ci sono anche partiti di estrema destra e ultra-ortodossi, a cui sono stati affidati ministeri molto importanti. ‘Il nuovo governo è composto da ventinove ministri, di cui solo cinque donne.
Su Twitter, il premier scrive: ‘Grazie all’enorme sostegno della popolazione alle scorse elezioni, sono stato in grado di formare un governo che lavorerà per il bene di tutti gli israeliani’‘. Tra i nomi più controversi del nuovo governo si ricordano Ben Gvir, Bezalel Smotrich, capo del Partito Sionista Religioso, e Yoav Maoz, leader di Moav (partito sionista conservatore).
Le nomine più controverse
Gvir, ministro della Pubblica sicurezza, ha il controllo della polizia nazionale, ma anche quello della polizia di frontiera tra Israele e Cisgiordania, a cui vuole donare più libertà. La nomina di Gvir ha fatto molto parlare, a causa del suo sostegno all’occupazione illegale di Israele della Cisgiordania e delle sue posizioni razziste nei confronti dei palestinesi e dei cittadini arabi-israeliani. Smotrich, anch’egli sostenitore dell’occupazione illegale della Cisgiordania, è ministro delle Finanze. Quello che fa più discutere, però, è la sua assegnazione al ministero delle politiche per la Cisgiordania. Le politiche che gestirà il ministro sono infatti al centro della politica internazionale: si occuperà della costruzione di nuovi insediamenti israeliani nei territori occupati, considerati illegali dall’Organizzazione delle Nazioni Unite. Infine, a Maoz, esponente di destra radicale, famoso per le sue posizioni omofobe, ultraconservatrici e antiarabe, è stato affidato l’incarico di capo del nuovo dipartimento “Identità ebraica” con il titolo di vice ministro.
It’s hard to overstate just how dangerous the new Israeli government will be, first and foremost for Palestinians, but also for Israelis and the region. 🧵
— Mairav Zonszein מרב זונשיין (@MairavZ) December 28, 2022
I gesti che fanno discutere
Diversi sono i gesti e le decisioni del nuovo governo che, a meno di un mese dal suo insediamento, sono già stati criticati. Primi fra tutti la decisione del nuovo ministro della Pubblica Sicurezza, Gvir, di visitare a inizio gennaio la Spianata delle Moschee a Gerusalemme est, la parte palestinese della città. La Spianata è il terzo luogo sacro più importante per le persone di fede mussulmana, ha fatto quindi molto discutere la scelta di quel luogo in particolare come prima visita ufficiale del ministro. La “passeggiata” è stata ampiamente criticata da parte dei palestinesi: il ministero degli esteri l’ha definita come una “provocazione senza precedenti”. La decisione di Gvir richiama infatti un evento storico simile: il 28 settembre 2000, si recò qui anche l’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon (Likud). La sua visita creò una serie di proteste che sfociarono nella seconda Intifada, la rivolta palestinese.
A pochi giorni di distanza, lo stesso Gvir ha preso una decisione ai danni dei palestinesi. Il ministro ha infatti completamente vietato l’esposizione delle bandiere palestinesi, definendole un “simbolo di terrorismo”. La misura è stata presa in risposta ad una serie di manifestazioni che hanno avuto luogo nella città di Arara, a nord di Tel Aviv, in seguito alla scarcerazione anticipata di Karim Younis (un simbolo per i palestinesi), condannato dopo aver ucciso un soldato israeliano.