Il Mito della Bellezza scritto da Naomi Wolf e pubblicato per la prima volta in Italia nel 1990, torna in libreria in una nuova versione edita da TLON e curata da Maura Gancitano e Jennifer Guerra, intellettuali e filosofe femministe.
Una lettrice di oggi potrebbe trovarsi nella condizione di rifiutare di credere di essere così ingenua da cadere vittima del mito della bellezza. Oppure potrebbe cogliere lo spunto per fare qualche riflessione.
Naomi Wolf nel suo saggio proponeva un resoconto della situazione femminile in Occidente a partire dagli anni Settanta. Le donne in quel periodo avevano cominciato ad affacciarsi al mondo del lavoro rinunciando ad occuparsi esclusivamente delle incombenze domestiche e familiari. Il Mito della Bellezza descrive dunque un periodo di grande transizione sociale e culturale. Non più relegate al ruolo esclusivo di madri/mogli/casalinghe, le donne prendevano finalmente in considerazione l’idea di procurarsi l’indipendenza economica facendo affidamento sulle loro capacità personali e professionali. A parere dell’Autrice, quelle donne valorose iniziarono a rappresentare una minaccia per la struttura del potere detenuto fino a quel momento esclusivamente dal sesso maschile.
Pertanto, per usare le parole di pagina 33:
La discriminazione della bellezza si è resa necessaria non perché le donne non saranno abbastanza capaci, ma perché saranno come sempre capaci il doppio.
Nel 1990 Naomi Wolf sosteneva dunque che il mito della bellezza rappresentasse una nuova forma di controllo per le donne ed esaminava in che modo esse ne venissero condizionate a seconda dei diversi ambiti sociali: nel mondo del lavoro; nella cultura; nell’alimentazione; nel rapporto con gli uomini e in quello con le altre donne.
Il Mito della Bellezza conduceva la sua indagine fino all’epoca di quella che viene considerata la seconda ondata del femminismo.
Oggi siamo decisamente molto lontani dagli anni che descriveva l’autrice, ma questo saggio offre l’opportunità per porsi qualche domanda, a maggior ragione perché ci troviamo in piena rivoluzione estetica: tra il movimento body positive, lo scardinamento dei pregiudizi innescati dalla grassofobia e la creazione di un nuovo linguaggio inclusivo.
Un libro che fa riflettere
Una delle reazioni che si potrebbe avere leggendo il libro è quella di pensare che molti dei dati e dei fatti in esso contenuti siano riferiti a donne profondamente insicure e facilmente condizionabili.
Ma siamo davvero sicure di non esserlo anche noi?
È la stessa Naomi Wolf a far riflettere su quanto alle donne degli anni Settanta dovessero esser sembrate ingenue quelle delle precedenti generazioni: relegate al ruolo di regine del focolare; sessualmente anestetizzate – almeno quelle rispettabili; dedite tuttalpiù ad attività ricreative come il ricamo dei merletti e spesso considerate affette da isteria o ipocondria: due patologie ritenute tipicamente femminili.
Vale la pena di domandarsi se non capita costantemente alle donne di una certa generazione di considerare un po’ sprovvedute quelle della precedente generazione. Se questo è vero, forse capita perché ci si accorge solo a posteriori dei condizionamenti a cui erano sottoposte?
Forse vale la pena di riflettere sul fatto che una delle caratteristiche più insidiose del mito della bellezza è proprio questo suo agire subdolamente insinuandosi nel modo di pensare e nel sentire comune?
Il mito della bellezza nella vita lavorativa
La vita per strada e in ufficio ha in serbo inquietudini sconosciute, per il fatto di sottoporla a un vaglio pubblico che sua madre e sua nonna evitavano a tutti i costi.
L’affermazione di Naomi Wolf scritta a pagina 43 sembra del tutto anacronistica. Il riferimento, in effetti, riguarda la donna degli anni Settanta che per la prima volta, diversamente da madre e nonna, aveva smesso di fare la casalinga per avventurarsi alla conquista dell’indipendenza economica.
Dunque, siamo ben lontane da quei tempi perché oggi, lavorare, rientra nella “normalità”. Eppure, siamo davvero sicure che non capiti anche adesso alla donna che lavora di sperimentare qualcosa di simile al senso di colpa per non dedicarsi abbastanza alla propria famiglia?
O che non le capiti di sentirsi incapace di dividersi tra carriera e affetti?
O che senta tutta la fatica, dopo il lavoro, di doversi occupare anche di casa, marito e figli perché, altrimenti, chi lo farebbe?
Potrebbe non essere un problema riguardante solo la donna degli anni Settanta?
Le qualità di questa forza-lavoro che soddisfano maggiormente i datori di lavoro sono una scarsa autostima, una buona tolleranza nei confronti di incarichi noiosi e ripetitivi, la mancanza di ambizione, una notevole condiscendenza, più rispetto per gli uomini (che le amministrano) che non per le donne (che lavorano accanto a loro), e scarso senso di controllo sulla loro vita.
Anche la frase a pagina 39 sembra del tutto inattuale. Ma lo è davvero?
E subito dopo, a pagina 71 viene voglia di chiedersi quanto di anacronistico ci possa essere nella frase “Le donne non si aspettano promozioni o stipendi più alti perché sono state condizionate dalle loro esperienze di lavoro a non aspettarsi miglioramenti nella loro condizione di lavoratrici”.
Ma perché allora, per dire, abbiamo bisogno delle quote rosa?
L’immagine pubblica delle donne
Naomi Wolf nel suo Mito della Bellezza tirava in ballo una pubblicazione del 1977 di John Molloy, il bestseller intitolato The Womans’s Dress For Success Book dove all’esito di ricerche statistiche accurate si arrivava alla conclusione di definire il tailleur come l’abito del successo perché “senza una divisa” – sosteneva Molloy – “non vi è parità d’immagine”.
È obsoleto tutto questo? Abbiamo davvero superato ogni problema in fatto di vestiario? O è ancora attuale affermare ad esempio che “alle donne è richiesto di avere l’aspetto giusto ma, per contro, se una donna è troppo curata potrebbe incoraggiare le molestie, perché” – scrive Naomi Wolf a pagina 63 – “il comportamento amichevole delle donne è spesso interpretato come sessuale, specialmente quando le allusioni non verbali sono ambigue, oppure quando le donne indossano abiti rivelatori” ? Siamo davvero libere di indossare quello che vogliamo?
“E che dire della diffusa opinione secondo la quale le donne si servono della loro bellezza per fare carriera?” – domanda Wolf a pagina 66.
Attuale o anacronistico?
Le immagini che ci hanno abituato a vedere
“Le riviste femminili riflettono i cambiamenti storici” – scrive Naomi Wolf a pagina 90 – “la funzione di queste riviste è in parte quella di determinare i cambiamenti storici”. Questa affermazione è del tutto superata o forse si impone una riflessione sul ruolo attuale di internet e dei social media ?
E a proposito del proliferare di immagini pubblicitarie basate su pornografia, sadomasochismo, “guerra sessuale” e “diseguaglianze di potere”, viene da chiedersi se la frase a pagina 186 abbia ancora un peso: “il pubblico perde presto ogni interesse verso una nudità semplice e innocua”.
Potrebbe essere anche questa del tutto superata, ma forse vale la pena di interrogarsi su come l’immaginario erotico possa essere condizionato dalle immagini esterne.
Prenditi cura di te
Il Mito della Bellezza di Naomi Wolf riflette sul bisogno di approvazione, sul senso del peccato, sulla predisposizione all’autocritica e li considera come effetti collaterali di questo mito nato per rendere le donne vulnerabili.
Ossessionate dal grasso, dall’invecchiamento e dal conquistare e mantenere la bellezza, quelle di Naomi Wolf sono donne che si muovono in un mondo dove ogni fluttuazione o cambiamento di peso è osservato, giudicato e discusso pubblicamente (pagina 173) e dove i consigli estetici sembrano basati sul senso di colpa (pagina 148):
Se non la smette di fare quello che sta facendo alla sua pelle, tra dieci anni il suo viso sarà un ammasso di rughe.
Tutto ancora molto attuale o da buttare via perché obsoleto?
Il femminismo
Allo stesso modo vale la pena anche di domandarsi se quello che Naomi Wolf scrive a pagina 382 sia ancora vero:
Noi donne abbiamo imparato a desiderare ardentemente la bellezza nella sua forma attuale perché nello stesso tempo imparavamo che la battaglia femminista sarebbe stata molto più dura di quanto avevamo pensato.
È ancora attuale il femminismo? E cos’è più facile: essere femministe o conformarsi al mito della bellezza?
Il mito della bellezza è anacronistico. O forse no?
“L’invecchiamento nelle donne è considerato brutto, poiché le donne col tempo diventano più potenti” (pagina 23).
“Il loro aspetto è considerato importante perché non lo è quello che dicono” (pagina 145).
“La visione del mondo che viene insegnata alle ragazze è maschile” (pagina 285).
Si potrebbe ancora andare avanti per molto, analizzando ciascuna singola frase del Mito della Bellezza.
Ci si potrebbe chiedere come e se abbiano ancora un senso le parole di Naomi Wolf.
Ci si potrebbe domandare, se questo mito esiste ancora, quanto influisce eventualmente sulle nostre vite. E in che misura potrebbe aver solo cambiato veste e mezzi rispetto agli anni Settanta.
Forse vale la pena di cogliere l’opportunità di fare qualche riflessione leggendo questo libro degli anni Novanta. Se non altro per poter constatare di essere al sicuro dai condizionamenti esterni. O per poter dire che le parole di Naomi Wolf si sono già realizzate:
Conquistare la fiducia, la sessualità e l’autostima di una sana individualità sono in effetti delle qualità che non hanno niente a che fare con la bellezza in particolare; tutte le donne le meritano, e saranno a portata di mano non appena il mito sarà smantellato.