Come ogni forma d’arte che si rispetti, il teatro si è estremamente evoluto durante i millenni. Nato, secondo quanto sostenuto dalle attestazioni storiche, in Grecia nel VI secolo a.C. durante le celebrazioni in onore del dio Dioniso (le grandi Dionisie), si è trasformato e adattato per rispondere a esigenze storiche e culturali. Se si immaginasse un incontro tra uno spettatore della Grecia antica e uno della Milano del secondo millennio, non ci si stupirebbe nell’ipotizzare una conversazione buffa e poco concorde. Di certo i loro racconti non troverebbero più che pochissimi punti in comune. Ciò nonostante, si noterebbe quanto la figura dell’attore rappresenti la costante che mette in accordo i due interlocutori. Il teatro cambia la sua ragione d’essere: se precedentemente era considerato un fatto sociale, punto di incontro dell’intera cittadinanza, oggi rappresenta motivo di intrattenimento, spesso colto e riservato a un’élite di abituè.
Nel corso dei secoli, il teatro ha adattato anche la sua scenografia. Oggi, con l’esplosione delle arti performative, cadono i tradizionali paradigmi rappresentativi dello spettacolo teatrale. Non sempre, infatti, la presenza di un palcoscenico risulta necessaria: a volte la rappresentazione avviene in uno “spazio totale”, coincidente anche alla stessa sala teatrale, che stimola enormemente la fantasia degli spettatori. Altre volte, la narrazione si fa minimale fino quasi a scomparire: si passa quindi dal teatro di parola al teatro danza di Pina Bausch, in cui la potenza del corpo supera i limiti imposti dalla parola. In ogni caso, filo conduttore della rappresentazione del teatro contemporaneo è di nuovo l’attore, in rapporto dicotomico con lo spettatore. In effetti, uno spettacolo senza la presenza di almeno un attore non avrebbe ragione di esistere. La magia del teatro si crea, infatti, grazie alla simbiosi raggiunta dalle due entità, separate ma unite nel momento della scena.
L’evoluzione dell’attore nello spazio della scena: dall’antichità alla contemporaneità
Nell’epoca contemporanea il corpo dell’attore è quantomai esaltato e reso protagonista della scena. Emblematico il caso di Emma Dante, che con Bestie di scena ha scelto di portare sul palco una compagnia di attori completamente nudi, privati di qualunque fattezza sociale. L’esaltazione dell’attore in quanto figura ed essere che popola lo spazio della scena è una concezione estremamente moderna, assente prima del XX secolo. In effetti, fin dalla Grecia antica, il teatro era caratterizzato da una scenografia molto sfarzosa, che limitava la mimesis, ovvero l’immedesimazione psicologica nel personaggio da parte del pubblico e rendeva quasi secondaria la presenza dell’attore.
Lo spettacolo, a prescindere dal genere, era poco empatico. Tra attore e spettatore vi era parecchia distanza emotiva e ciò permetteva di percepire la messa in scena come momento di indottrinamento e formazione per la comunità. La scarsa valorizzazione dell’attore come “bestia scenica” era accentuata dalla presenza di maschere teatrali e costumi sontuosi, che spesso avevano l’obiettivo di rendere riconoscibile il carattere presente sul palcoscenico anche a lunga distanza. Un’estremizzazione di questo concetto è evidentemente la commedia dell’arte, in cui le maschere, personaggi stereotipati e caratterizzati da tratti fissi, sono assolute protagoniste della scena.
Nonostante tutto, è bene ricordare come la parola “teatro” deriva dal greco théatron che, presentando la radice th- fa riferimento alla sfera semantica di “guardare”, “osservare”. Il teatro è per antonomasia il luogo in cui si guarda. Essenza della rappresentazione è, infatti, un corpo presente sulla scena, anche privo di parole. Nonostante la vista sembri essere il senso più coinvolto durante lo spettacolo teatrale, le modalità della rappresentazione della scena si sono parecchio trasformate nel corso dei secoli. Lo spazio teatrale è stato sempre più “pulito” di oggetti di scena ritenuti superflui, fino a trasformarlo in un ambiente nudo, adatto ad ospitare la semplicità dell’attore.
A rivoluzionare il teatro e introdurre ciò che noi oggi riconosciamo come tale è stato Jerzy Grotowski, un regista polacco che ha cavalcato una buona parte del secolo breve.
Per un teatro povero: Grotowski torna all’essenza della rappresentazione
Grotowski fu un regista e teorico polacco che si distaccò dal tradizionale movimento d’avanguardia del Novecento per dedicarsi a una ricerca più profonda e introspettiva sul teatro. Il suo capolavoro è stato pubblicato nel 1968: Per un teatro povero è la raccolta di saggi che ha modificato per sempre la concezione del teatro e ha successivamente guidato Eugenio Barba nello sviluppo di un’idea di “teatro moderno”.
Eliminando gradualmente tutto ciò che è superfluo, scopriamo che il teatro può esistere senza trucco, costumi e scenografie appositi, senza uno spazio scenico separato (il palcoscenico), senza gli effetti di luce e suono, etc. Non può esistere senza la relazione con lo spettatore in una comunione percettiva, diretta.
Come si può notare dalla citazione diretta tratta dall’opera, Grotowski concepisce un teatro completamente spoglia del superfluo, dunque ridotto all’essenziale. La maturazione di un’idea così tanto innovativa e sovversiva è frutto della trasformazione profonda del contesto storico-sociale del secondo Novecento. L’avvento del cinema aveva infatti rivoluzionato le tradizionali forme di intrattenimento e costretto a un ripensamento del teatro. In effetti, il cinema è uno strumento coinvolgente ed estremamente scenografico, che attrae lo spettatore per la sua estrema verosimiglianza. Per poter dunque competere e non soccombere, il teatro è stato costretto a ripensarsi e ridursi all’essenza, a diventare “povero”, dunque non più paragonabile a una forma d’intrattenimento all’avanguardia che sfrutta a pieno le innovazioni del digitale.
Ma cosa intende davvero Grotowski quando parla di “teatro povero”?
Come precedentemente anticipato, è bene sottolineare come per Grotowski povertà non significhi privazione, ma riduzione all’essenza. La poetica dell’autore prevede la privazione del superfluo sulla scena, ovvero l’eliminazione dello sfarzo che aveva caratterizzato le messe in scena fino al Novecento. La bellezza e l’efficacia di uno spettacolo teatrale non dipendono dall’estetica della rappresentazione, ma dalla “magia” creata dallo stesso. Egli infatti diceva:
Il teatro può esistere senza costumi e scenografie? Sì. Può esistere senza musica che commenti lo svolgersi dell’azione? Sì. Può esistere senza effetti di luce? Certamente. E senza testo? Sì; la storia del teatro ce lo conferma… Ma può il teatro esistere senza attori? Non conosco esempi del genere… Può esistere il teatro senza spettatori? Ce ne vuole almeno uno perché si possa parlare di spettacolo…
Il trucco, i costumi e la regia e addirittura il copione non costituiscono da soli uno spettacolo teatrale: al massimo rappresentano elementi di corredo che, se eliminati, non ne modificano l’essenza.
Al contrario, Grotowski sottolinea l’indispensabile presenza dell’attore, che si fa sempre più protagonista della scena. Eliminare il superfluo significa infatti valorizzare il corpo dell’attore, la sua energia sul palcoscenico e soprattutto la simbiosi che è in grado di creare con lo spettatore. Non a caso Grotowski parla di “comunicazione percettiva“: una relazione che non coinvolge solamente la parola, ma anche gli altri sensi e che conduce il pubblico alla cosiddetta “sospensione dell’incredulità”.
L’eliminazione del superfluo ha spinto Grotowski a ideare regie caratterizzate da scenografie minimali e basate su toni cromatici freddi. Inoltre, predilige l’utilizzo attori vestiti completamente di nero, il colore che evoca, per eccellenza, la neutralità. In questo modo l’attore si presenta “nudo” sulla scena, spogliato degli sfarzi della rappresentazione e in possesso del solo proprio corpo. Si tratta in questo caso di una nudità figurata, evocata dall’estrema semplicità del costume. Al contrario, l’eredità del regista accolta da Emma Dante, estremizza tale concetto, portando in scena attori letteralmente nudi e quasi totalmente privi di oggettistiche. Sul palco gli attori hanno a disposizione solo il proprio corpo e quello dei compagni e ciò costituisce il fondamento sul quale costruire una narrazione emotiva.
Il teatro come sacerdozio
Il pensiero di Grotowski determina un generale ripensamento della natura dell’attore e della sua presenza all’interno dello spazio del teatro. Il regista e teorico polacco non parla soltanto di “teatro povero”, ma anche di teatro come “sacerdozio”. Rievocando la storica associazione tra il teatro e riti religiosi, Grotowski parla di “santità del palcoscenico”: la recitazione dell’attore è un vero e proprio atto sacrale e lo spettacolo diventa un rito. Entrando in scena, l’attore si spoglia delle sue fattezze quotidiane per entrare in uno spazio parallelo e altro, sacrale appunto. Lo spazio della scena risulta invaso da una santità molto simile a quella delle Chiese. Gli spettatori diventano parte essenziale di un rito, fino a esserne testimoni. Interessante a tal proposito il celeberrimo spettacolo da lui diretto La tragica storia del Dottor Faust. Lo spettacolo, intimo e pensato per una platea limitata di spettatori, prevedeva il pubblico disposto attorno a un tavolo, invitato alla cena d’addio di Faust. Gli spettatori erano direttamente coinvolti nella rappresentazione e osservavano come testimoni la tragedia.
Gli spettacoli di Grotowski erano pensati per una platea estremamente limitata di spettatori. A volte cinquanta, altre invece uno o due. Solo creando un’atmosfera intima è possibile costruire una relazione emotiva e mistica adatta alla costruzione della magia del teatro. Nell’ultima parte della sua vita, il teorico e innovatore del teatro si è ritirato in Italia, a Pontedera, dove ha aperto un “Laboratorio” per attori. Questo rappresentava uno spazio di lavoro in cui giovani teatranti, anche non professionisti, decidevano di intraprendere un percorso di formazione prevalentemente di tipo spirituale, oltre che artistico.
L’eredità di Grotowski
La pedagogia teatrale di Grotowski è ben visibile nel teatro contemporaneo. Il teatro di narrazione di Marco Paolini, per esempio, spoglia la scena di tutta la scenografia non necessaria, per sottolineare la presenza dell’unico elemento essenziale: l’attore e il suo rapporto con lo spettatore. Inoltre, il teatro di ricerca e la performance insistono sull’esaltazione del corpo muto dell’attore.
Di certo l’erede diretto è Eugenio Barba, il fondatore dell’Odin Teatret e genitore del teatro contemporaneo. In particolare, vi è un filo sottile che lega i due Maestri in merito alla pedagogia teatrale. Anche per Barba, come per Grotowski, la rinuncia dell’eccesso è strumento essenziale per un’approfondita ricerca interiore da parte dell’attore. Eugenio Barba, in quanto pedagogista, teorizza un metodo per liberarsi da tutto ciò che non è utile per la scena. Identifica dunque l’idea di extra-quotidiano, ovvero dei metodi che consentono di eliminare tutte le fattezze legate al contesto sociale e culturale in cui è inserito l’attore. In questo modo, spogliatosi del superfluo, l’attore è nudo e pronto per entrare nel personaggio.
Con Grotowski e il suo “teatro povero” nasce un’idea di teatro nuova ed estremamente essenziale, che scardina completamente il modello tradizionale. Ridurre all’essenza per esaltare il corpo dell’attore e la relazione con lo spettatore è un principio cardine e imprescindibile. Conoscerlo permette di partecipare attivamente a uno spettacolo teatrale e di fruire consapevolmente della magia della scena.
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