Beneficenza o mercato nero?

Sarà sicuramente capitato a ciascuno di noi di accorgersi di quanti capi d’abbigliamento possediamo e di quanti ne indossiamo effettivamente. Una quantità nettamente minore quella dei vestiti che indossiamo spesso. Siamo sempre spinti a comprare abiti nuovi, ad azzardare con colori che mai scegliamo, costantemente trascinati dal desiderio di essere alla moda. Ma alla fine, giunti a casa, tra le mura della nostra camera, apriremo l’armadio e andremo a scegliere sempre quegli abiti confortevoli e familiari che ci fanno sentire noi stessi.

Per sopperire così ai sensi di colpa per aver svuotato il portafoglio inutilmente, decidiamo di donarli a qualcuno che sicuramente ne ha più bisogno e improvvisamente il senso di colpa scompare.

Una mezza verità

Il modo più semplice e rapido per donare i vestiti che non indossiamo più è recarsi presso gli appositi cassonetti sparsi nelle città e riporre lì il nostro sacco pieno di indumenti. Con il cuore più leggero per la donazione appena fatta, ci allontaniamo, perdendo completamente di vista i nostri abiti donati. Ma siamo sicuri che quei cassonetti siano il modo più sicuro per dare i nostri capi in beneficienza? Dove vanno a finire quegli abiti?

Semplice. Nei luoghi dove poi vengono distribuiti tra le varie associazioni che si occupano di sostenere le persone più bisognose come rifugi per senzatetto o centri di accoglienza per immigrati. Questo è vero, in parte.

I cassonetti gialli della Caritas Ambrosiana

Prendiamo come riferimento la Caritas Ambrosiana. Oltre alla classica attività di raccolta di indumenti per i più poveri, è nato un nuovo metodo per dare una seconda vita a questi abiti. L’iniziativa si chiama Dona Valore, iniziativa che si concretizza con la distribuzione nella città di cassonetti gialli dove ciascuno di noi può portare i vestiti che non usa più.

Questo progetto si presenta come un esempio di successo di economia circolare. In 20 anni ha prodotto oltre 3,5 milioni di euro a favore di 141 progetti sociali per 5.600 persone in difficoltà e ha permesso il risparmio di 42mila tonnellate di emissioni di anidride carbonica, oltre 70 miliardi di metri cubi di acqua, 3.500 tonnellate di fertilizzanti e 2.350 tonnellate di pesticidi risparmiati. Il che è davvero rassicurante per noi che poniamo lì i nostri abiti.

Cos’è “Dona Valore”?

Dona Valore è gestita da R.I.U.S.E., Raccolta Indumenti Usati Solidale ed Etica, composta da 8 cooperative che lavorano sul territorio di Milano e di Brescia. Questo progetto è un po’ più complesso del semplice “guardaroba per i poveri” che tutti conosciamo. Gli abiti che noi abbiamo donato non sono altro che scarti, rifiuti, per cui per legge devono essere affidati ad aziende che si occupano di selezionarli, igienizzarli e rivenderli. Il ricavato di queste rivendite va a finanziare i diversi progetti sociali promossi dalla Caritas. Questo è quello che la Caritas Ambrosiana afferma.

Le indagine della redazione Le Iene

Purtroppo, il progetto non si presenta come uno dei più trasparenti, anzi. La redazione de Le Iene, programma noto che va in onda su Italia 1, ha affrontato questa questione più di una volta facendo luce sugli angoli più bui di questa situazione. Con un servizio andato in onda nel 2019, la redazione ci ha mostrato come realmente funziona il progetto Dona Valore.

 

Questione di percentuali… minime

I cassonetti non appartengono all’associazione Caritas, il bollino dell’associazione viene solo incollato su questi cassonetti che appartengono invece ad altre aziende, private e non, quelle 8 cooperative sopracitate. Questo già ci dice molto.

Soltanto l’1% dei ricavi va all’associazione Caritas, il resto è destinato a finanziare altre attività. La Caritas riceve una somma in denaro consistente, certo, ma nulla in confronto al resto del denaro che invece va ad alimentare attività illecite. L’associazione benefica usa questi soldi per finanziare progetti sociali, ma noi cerchiamo di approfondire la questione degli altri progetti, in un certo senso, sempre alimentati da noi consumatori inconsapevoli.

Tutto nelle tasche della criminalità organizzata

Le grandi aziende che si occupano di raccogliere, selezionare, igienizzare e rivendere i capi in tutto il mondo, come prevede la legge, non sempre fanno il proprio lavoro nella maniera più lecita. La redazione de Le Iene ha messo in luce alcune illegalità come guadagni non dichiarati, in poche parole, lavoro a nero.

Dove vanno questi soldi non dichiarati? Facilmente desumibile. Alimentano il traffico illecito da cui la criminalità organizzata trae enormi profitti. Ma non possiamo solo immaginarlo, ne abbiamo anche la certezza poiché un rapporto della Direzione Nazionale Antimafia lo afferma.

Si tratta di tonnellate di indumenti usati non tracciabili a cui viene assegnato un valore in maniera del tutto arbitraria. Un’altra problematica, che nasce sicuramente dalla mancanza di leggi in proposito, è l’igienizzazione che non sempre viene fatta secondo il giusto procedimento, specialmente per i capi che non seguono un percorso di rivendita lecito.

Effetti sull’ambiente

Molti, infatti, non vengono rivenduti come dovrebbero. Alcuni dovrebbero essere smaltiti in discariche, ma ciò prevede dei costi e quasi mai le aziende che si occupano di ciò sono disposte a farsi carico di queste spese. Per cui tonnellate e tonnellate di abiti usati e invenduti vengono ammassati in vastissimi capannoni e ci rimangono per anni. Oppure vengono bruciati o sotterrati nei campi agricoli, provocando danni ambientali irreversibili. Tutto il denaro risparmiato, che avrebbe dovuto essere utilizzato per lo smaltimento dei rifiuti, va ad arricchire le tasche dei malfattori che gestiscono questi illeciti. Come conferma un altro interessante servizio curato da Le Iene del 2021.

Avreste mai immaginato che, dietro quella nostra semplice donazione per persone più bisognose, ci fosse un campo sterminato di attività illegali come questo? Forse no.

Dall’Italia al mondo, le indagini di Marketplace

La curiosità di sapere dove vadano a finire i nostri vestiti usati, è sorta anche nella mente di consumatori provenienti da tutto il mondo. Marketplace, il programma televisivo investigativo canadese, si è informato. Sono state lanciate alcune iniziative per invitare i consumatori a non gettare abiti non più utilizzati, ma a dare loro una seconda vita. Nei negozi che partecipano a questa iniziativa, come H&M, si possono trovare piccoli bidoncini in qui si può riporre il capo che non vogliamo più e in cambio possiamo anche ricevere un coupon per fare acquisti in quel negozio.

I giornalisti di Marketplace (indagine risalente al 2018) hanno indagato a fondo ed è venuto fuori che soltanto il 15% di questi abiti svolge il suo compito andando a regalare un sorriso a chi ne ha più bisogno o subendo dei processi di riciclaggio. L’85% finisce nelle discariche. Inoltre, i tessuti che compongono questi abiti non sono biodegradabili per cui non possono far altro che inquinare.

Green-washing: attività presentata come eco-sostenibile dall’azienda promotrice che ne occulta l’impatto ambientale negativo

Non solo H&M, anche Zara, Levi’s, Adidas hanno abbracciato queste iniziative “green”. Ma si tratta di un green affidabile? O è solo green-washing? Questi mostri del fast fashion hanno come obiettivo quello di creare nuovi vestiti riutilizzabili, partendo da quelli che noi abbiamo scartato, e le pubblicità che ci vengono mostrate parlano chiaro.

Qual è la verità?

Anche qui parliamo di percentuali minime. Solo l’1% di questi vestiti donati vengono realmente riciclati. Perché? Perché i nostri abiti sono composti da materiali complessi, da mix di tessuti diversi e questo non fa che rendere difficile il riciclaggio. La tecnologia non è abbastanza sviluppata per fare ciò. Inoltre, il tutto comporta dei costi rilevanti che a volte non producono abbastanza introiti. Poiché, ricordiamo, quando un abito viene riciclato, le fibre del tessuto perdono alcune proprietà che invece avevano originariamente e ciò va a diminuire il prezzo del prodotto. Quando sarà venduto non potrà avere un costo uguale a quello che aveva prima del riciclaggio.

Come si potrebbe evitare o almeno ridurre questo problema?

Anche qui la soluzione sembra semplice. Ridurre la produzione. I prodotti che questi negozi vendono sono moltissimi e vengono prodotti e consegnati a una velocità incredibile. La nuova merce viene consegnata non verso la fine di una stagione per la stagione successiva, ma circa ogni due giorni in modo tale che, anche recandosi nello stesso negozio a distanza di una sola settimana, il consumatore troverà sempre nuovi abiti da poter comprare. Ciò induce a comprare anche capi che non servono. Brutalmente possiamo affermare che compriamo quello che in 2 giorni viene venduto ma che in 12 anni viene smaltito.

http://https://www.iene.mediaset.it/video/camorra-business-vestiti-nero_559372.shtml

Gli esperti affermano che occorrerebbe fare un passo indietro, produrre meno e magari anche scegliere tessuti migliori realmente riciclabili. Ma tutto quello che viene fatto è esattamente il contrario.

Siamo sempre spinti a comprare dalle mille pubblicità da cui siamo bombardati ogni giorno. Non più i cartelloni e la televisione ma sono i social, sempre a portata di mano, che ci propongono novità su novità illudendoci di poter avere anche una vita migliore con quei capi di tendenza e a basso costo. Anche l’iniziativa del riciclaggio in sé è controproducente se ci viene offerto un coupon per spendere ancora.

Ma quindi dove vanno i vestiti non riciclati?

Marketplace ci mostra che finiscono a migliaia di chilometri di distanza, in Africa o in Sud America, nei mercati dove la gente più povera può acquistarli ovviamente a prezzi bassi. E se non vengono venduti perché di qualità troppo bassa? Gettati via nelle discariche o bruciati.

Eccessi di produzione

Un fenomeno che si osserva da poco tempo è quello che osserviamo in Africa dove, specialmente nella sua parte orientale, i commercianti si stanno ribellando alla vendita di abiti di seconda mano. Molti lucidamente affermano che se si arriva alla rivendita di abiti di seconda mano, vuol dire che qualcosa non va nel sistema, vuol dire che gli abiti prodotti sono una quantità nettamente ed eccessivamente maggiore rispetto a quelli venduti. È uno spreco. 

Cosa ne facciamo, quindi, di quegli abiti che non indossiamo più?

La donazione è sempre un’ottima opzione, ma bisogna essere certi dell’ente a cui stiamo donando, dobbiamo assicurarci che quegli abiti non finiranno nelle discariche, nei mercati neri, ma che andranno realmente ad aiutare una famiglia. Ecco perché l’altra opzione sarebbe la donazione privata, il che vuol dire che, se conosciamo qualcuno a cui servirebbe qualche capo in più, una buona alternativa sarebbe consegnare direttamente a quella persona meno fortunata gli abiti che non usiamo. Così da essere a conoscenza della fine che fanno.

Pensare prima di acquistare

Ma potremmo adottare anche un altro tipo di comportamento alla luce di questa faccenda complessa. È necessario comprare di meno, davvero ci serve l’ennesimo paio di scarpe e l’ennesima t-shirt di un’altra nuance di blu perché quella che possediamo è di un blu troppo scuro per la nostra carnagione? Essere consumatori responsabili e consapevoli e realmente green significa soprattutto questo.

Informarsi prima di tutto

L’invito sarebbe anche ad acquistare non più in grandi quantità da magazzini come H&M o Zara ma scegliere di comprare da qualche boutique del nostro paese, magari anche di seconda mano, così da aiutare anche il commercio locale e non alimentare questa enorme problematica che noi stessi, inconsapevolmente, causiamo e che sta precipitando sotto il nostro naso.

Humana People To People

Fortunatamente però ci sono anche note positive, una di questa è Humana. Humana è un’associazione che da circa 20 anni cerca di ridurre questo fenomeno. I cassonetti Humana, dove riporre i vestiti che non ci servono più, sono circa 5.600 e sono presenti in più di 1.200 comuni italiani. L’associazione promuove la cultura della solidarietà e lo sviluppo sostenibile, impegnandosi anche a educare noi cittadini a entrare in quest’ottica più green. Infatti, ci sono percorsi di Educazione alla Cittadinanza Mondiale nelle scuole e non solo, l’attività di volontariato è aperta a tutti e ci sono anche altre associazioni che cooperano con Humana.

Non solo ambiente

Le iniziative Humana non vanno solo a limitare la problematica dell’inquinamento e degli sprechi.

Humana si occupa anche di istruzione e formazione, attiva quindi dei programmi che hanno come obiettivo quello di alfabetizzare bambini e adulti. Si occupa di prevenzione, spendendosi in campagne finalizzate alla tutela della salute. O ancora, progetta iniziative per lo sviluppo comunitario lì dove c’è la necessità. Per ora le zone di intervento sono America Latina, in particolare il Brasile, l’India e alcune regioni dell’Africa Meridionale, ma ci si auspica di allargarsi gradualmente, aiutando sempre più popolazioni.

Come interviene Humana riguardo la questione “abiti”?

Tornando al discorso sugli abiti di seconda mano, Humana si è ampiamente impegnata in questo progetto, aprendo anche degli store chiamati Humana Second Hand. Inoltre, un’app ci permette di acquistare abiti di seconda mano da casa, Humana Vintage. Esiste anche lo store Humana Vintage che seleziona e vende abiti retrò, spaziando dagli anni ’60 agli anni ’90.

Acquistare da Humana sembra una buona opportunità per aiutare quest’associazione, dare una seconda vita agli abiti, andando a limitare l’impatto sull’ambiente che è nettamente maggiore se acquistiamo continuamente dai marchi di franchising come Shein o Zara, e non esagerare con le spese, poiché i prezzi sono sempre accessibili.

Trasparenza

Ma, da consumatori responsabili, come detto prima, dobbiamo essere attenti e certi che le iniziative che appoggiamo osservino le regole imposte dallo Stato, così da assicurarci la massima trasparenza. Per Humana, infatti, la trasparenza è un valore. Da sempre tutte le attività sono tracciabili attraverso azioni di rendicontazione puntuale, racconto e dialogo con chi desidera conoscere e avere informazioni su quanto realizzato, nel Sud del mondo così come in Italia.

Grazie alla sottoscrizione del 5×1000 a favore di Humana nella Dichiarazione 2018, Humana ha ricevuto un ingente contributo che in parte è stato destinato all’associazione Humana Italia in Malawi, la realizzazione di un progetto di prevenzione del Covid-19 nei cinque istituti della ONG. La restante parte della somma ricevuta è stata impiegata per l’organizzazione Humana Italia in Mozambico, a sostegno di 14 borse di studio per pari numero di studenti dell’Istituto Politecnico di Nacala gestito dall’organizzazione stessa.

Anche il modello organizzativo che Humana adotta è sempre dichiarato con la massima precisione, insieme a tutti i riadattamenti che si fanno di anno in anno, il tutto per assicurarsi la totale fiducia da parte di noi consumatori e sostenitori di questa nobile associazione.

Un’iniziativa a portata di mano: Vinted

In questo periodo un’iniziativa che sembra andare incontro a questa problematica è quella dell’app Vinted. Vinted è un’app che possiamo scaricare tranquillamente sul nostro cellulare e sfogliare quando desideriamo. Ci permette di vendere e acquistare abiti che non usiamo più. Inoltre Vinted aiuta la negoziazione mettendo in contatto i due interessati alla compravendita nel forum del sito.

E non è finita qui, il tutto lo si può fare gratuitamente. Non si versa del denaro per registrarsi e nemmeno per caricare sull’app dei capi da vendere. Anche quando si compra un vestito da un utente non si paga la spedizione, nè si versa una piccola somma adestinata all’azienda Vinted.

Gli utenti un po’più prudenti, inoltre, possono pagare per avere diritto ad un servizio di protezione, a eccezione del caso in cui la vendita si attui tra un utente professionale, che vende, e un utente consumatore, che compra. Tutto il funzionamento dell’app e il regolamento sono illustrati con chiarezza sul sito e questo può solo rassicurarci.

Putroppo però, a giudicare dalle recensioni, sembrerebbe che l’app necessita dei miglioramenti poichè non tutti si approcciano a quest’app nella maniera più onesta possibile, molti cercano anche di spillare più soldi del dovuto all’acquirente con macchinazioni molto ”creative”.

Work in progress

Tutto quello che è stato analizzato finora, ci permette di fare un quadro della situazione molto nitido. Le problematiche dell’industria della moda che inquina più di molte altre, dell’eccesso di produzione di materiali poco riciclabili e dell’enorme impatto ambientale che ne consegue, sono ben presenti. Non tutti però ne sono a conoscenza quindi una maggiore diffusione di determinate informazioni sarebbe già un ottimo punto di partenza.

Anche la tecnologia sembra essere agli inizi, non ci sono ancora metodi e processi che permettono di riciclare di più o di fabbricare materiali biodegradabili. È qualcosa su cui si sta lavorando e per vedere i primi risultati effettivi occorrerà aspettare molto.

Nel nostro piccolo possiamo essere consumatori consapevoli e responsabili. Possiamo cercare anche di istruire chi non conosce queste problematiche ambientali, aiutando a distinguere le iniziative realmente green dallo squallido green-washing.

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