23 anni, la maglia della nazionale maggiore dal 2015 e una medaglia di bronzo agli ultimi mondiali. Eppure Paola Egonu, pallavolista opposto della nazionale italiana, esce dal campo in lacrime a causa di insulti razzisti che le sono stati rivolti. Un caso, l’ennesimo, che porta a interrogarsi sul ruolo del razzismo nello sport e, in generale, in Italia.
Il caso Egonu
Il 15 ottobre la nazionale italiana femminile di pallavolo segna un tre a zero contro gli Stati Uniti, aggiudicandosi la medaglia di bronzo ai mondiali 2022. Alla fine della partita però Paola Egonu, stella della squadra, premiata come best scorer della competizione, esce dal campo in lacrime. La ragazza, di origini nigeriane, cittadina italiana dal 2014, cerca conforto nel suo procuratore Marco Raguzzoni. “Mi hanno addirittura chiesto perché sono italiana“, dice. “Questa è la mia ultima partita in Nazionale, sono stanca. Non puoi capire. Vinciamo grazie a me, ma soprattutto quando si perde è sempre colpa mia”. Lo sfogo si riferisce alle critiche che hanno investito la squadra, e la giocatrice con la maglia 18 in particolare, dopo la sconfitta contro il Brasile in semifinale. Il video, ripreso da un tifoso, è diventato velocemente virale insieme alla foto che ritrae Monica di Gennaro, libero della nazionale, che abbraccia Paola. Le parole della giocatrice insieme al lungo abbraccio con la sua compagna hanno fatto temere subito il peggio: la fine della carriera di Paola con la maglia azzurra.
Nei giorni successivi, sia l’opposto che il suo procuratore hanno assicurato la permanenza di Egonu all’interno del progetto azzurro. Le critiche (e autocritiche) sul suo ruolo di giocatrice sono pesanti da sopportare, così come lo sono gli insulti razzisti, decisamente meno pertinenti al campo da pallavolo. Paola conferma che tornerà in nazionale, ma le parole restano. In un’intervista successiva, nonostante abbia sottolineato l’orgoglio nel portare il tricolore, la pallavolista ha ribadito gli insulti perpetrati nei suoi confronti: “Mi chiedo perché io rappresento persone del genere”. Il suo manager si è lamentato ulteriormente: “Paola è italiana al cento per cento, nel 2022 è assurdo sentire ancora queste cose”. Il suo sfogo ha fatto il giro del Bel Paese, raccogliendo anche il supporto dell’ormai ex premier, Mario Draghi. Un caso, quello Egonu, che fa riflettere sullo spazio che ha ancora il razzismo nello sport e, più in generale, in Italia.
🇮🇹🏐 Piena solidarietà alla campionessa di volley Paola #Egonu dal Presidente Draghi nella telefonata di questa mattina. L'atleta azzurra è un orgoglio dello sport italiano, avrà future occasioni per vincere altri trofei indossando la maglia della Nazionale pic.twitter.com/ZZnWLnhM3P
— Palazzo_Chigi (@Palazzo_Chigi) October 16, 2022
Il razzismo nello sport italiano
L’esistenza di discriminazioni razziali nello sport italiano è innegabile. Il caso di Paola Egonu è solo l’ultimo della lista. Sono da ricordare, infatti, gli insulti a Kalidou Koulibally, ora calciatore del Chelsea. L’anno scorso giocava nel Napoli ed è proprio indossando questa maglia che, in un partita contro la Fiorentina, si è sentito insultare. “Scimmia” gli hanno gridato i tifosi avversari. Nella stessa partita, Koulibally è poi stato nuovamente insultato insieme a due suoi compagni di squadra, Victor Osimhen e Andrè Frank Zambo Anguissa. Mentre uscivano dal campo a fine partita, i tre calciatori sono infatti stati accompagnati da più cori razzisti. Risale invece al 2021 il caso, sempre a sfondo calcistico, dei giocatori del Saragozza (squadra bolognese di terza divisione) che abbandonano il campo in segno di protesta, dopo i commenti razzisti diretti ad un loro compagno.
È proprio per far fronte al razzismo (e alle discriminazioni in generale) che nasce nel luglio del 2020 l’Osservatorio nazionale contro le Discriminazioni nello Sport. È del 20 ottobre l’ultimo rapporto dell’osservatorio, in cui si rileva che la maggior parte delle discriminazioni sportive sono a sfondo razziale. Grazia Naletto, responsabile migrazioni e lotta al razzismo dell’associazione Lunaria, ha presentato i risultati del rapporto: “Gran parte delle discriminazioni tendono a rimanere nell’invisibilità, tuttavia abbiamo cercato di dare rilevanza a tutti i casi di discriminazione, rilevando che il 40,3 % sono riferiti alle origini nazionali o ‘etniche’”. Anche Carolina Morace, allenatrice di calcio, denuncia il caso Egonu e lo fa risalire ad un quadro più grande, quello del razzismo, non solo a livello sportivo ma anche a livello sociale. “Lo sport è soltanto una piccola parte”, dice “viviamo purtroppo in una società dove non esiste la cultura della diversità, dove resiste una profonda ignoranza sui temi della libertà”.
Crisi e razzismo
Il razzismo è un atteggiamento che in Italia è in crescita. Non a caso storicamente il razzismo vede un aumento esponenziale nei periodi di crisi, soprattutto economica, finanziaria o sanitaria. Alle porte di un inverno che si presenta come energicamente difficile da sostenere, in una situazione geopolitica mondiale alquanto instabile, con il peso della recente pandemia di Covid-19 che grava ancora (sia a livello di salute fisica e mentale che economico) sulla società italiana, la crescita di un collettivo sentimento razzista non stupisce. Il rapporto è inversamente proporzionale: quando il benessere cresce, il razzismo diminuisce e quando questo diminuisce, al contrario il razzismo aumenta.
Il rapporto tra crisi e razzismo trova le sue radici in due elementi: la paura e il pregiudizio. La crisi porta con sé problemi, il peggioramento dello stile di vita, incertezze e rabbia: la crisi fa paura. Là dove l’incertezza e la paura regnano sovrane, è facile trovare un responsabile dei problemi economici e sociali, trovare un capro espiatorio. Il diverso, “l’altro”, solitamente in minoranza, diventa quindi un bersaglio perfetto per sfogare la propria frustrazione. Il risultato è una corsa verso i pregiudizi, che dividono il mondo in gruppi monolitici e offrono così risposte e sicurezza. Ne è stato un esempio la sinofobia durante (e in parte anche dopo) la pandemia di Coronavirus. Durante il 2020 e 2021, i cinesi residenti all’estero hanno infatti dovuto subire episodi ripetuti di razzismo, scatenati dalla paura per il nuovo virus. Dall’Italia, all’Australia, al Regno Unito, le denunce di episodi sinofobi sono state diverse, una delle più famose a Milano, dove la docente di marketing all’università Cattolica di Milano Lala Hu ha raccontato su Twitter di aver subito vessazioni verbali sul treno da parte di due altri passeggeri.
Il razzismo nella società italiana
Alla voce “razzismo” sull’enciclopedia «Treccani» si legge: “Concezione fondata sul presupposto che esistano razze umane biologicamente e storicamente superiori ad altre razze. È alla base di una prassi politica volta, con discriminazioni e persecuzioni, a garantire la ‘purezza’ e il predominio della ‘razza superiore’.” Per dirlo in modo diverso, è un insieme di pregiudizi e stereotipi (la scientificità delle teorie razziste è infatti stata smentita) che si basano su alcuni elementi di diversità tra chi subisce e chi perpetua razzismo, quali il colore della pelle o particolari tratti somatici. In Italia, il fenomeno è innegabilmente diffuso. L’Istituto Nazionale di Statistica (Istat), in un rapporto di aprile 2022, ha denunciato infatti che quasi il 30% dei cittadini stranieri residenti in Italia ha subito discriminazioni a scuola, all’università, sui mezzi pubblici o sul luogo di lavoro. È un approccio reduce del colonialismo e dello sfruttamento che gli europei imponevano ai colonizzati, ma come si spiega oggi la permanenza di questi pregiudizi e di questo sentimento di superiorità?
Una prima motivazione può essere dettata dal bisogno umano di dividere il mondo in categorie, che rendano più facile da identificare, riconoscere ed “etichettare” ciò che è diverso. L’approccio a un mondo diviso in scompartimenti è più semplice, più rigido, più lineare. L’estremo comportamento di questa tendenza umana è quindi quello di dividere gli stessi uomini in gruppi superiori e in gruppi inferiori, le razze. Il bisogno di ricondurre il mondo a una serie di caselle si spiega soprattutto là dove governa la paura del diverso e la diffidenza verso la libertà. La decisione di affibbiare un’etichetta a ciò che non si conosce, che quindi in qualche modo si teme e che sfugge dal proprio controllo, è un modo più veloce e che regala più sicurezze (apparenti) rispetto a un processo di avvicinamento, di studio e di comprensione dell’altro.