Camerati d’Italia

Cala il sipario, si fermano le bocce: Giorgia Meloni è l’indiscussa vincitrice delle elezioni politiche 2022. Dopo poco più di un mese di campagna elettorale (anche se all’osservatore distratto potrebbero essere sembrati molto di più) è il momento di fare i conti con numeri reali e non indicativi, con volti, nomi e curriculum immacolati o ben noti… All’avvicendamento che ha portato all’ultimo passaggio della campanella di Chigi, insomma. Ma mentre i vincitori festeggiano (con “sobrietà e responsabilità” su ferreo diktat di Giorgia stessa), gli sconfitti devono leccarsi le ferite e chiedersi: che opposizione sarà?

“O loro, o loro”…

Ebbene sì, questa domanda, legittimamente passata in secondo piano rispetto alla ben più gettonata “che tipo di governo ci attende?”, resta pur sempre cruciale. Se alcune forze sconfitte hanno già annunciato che faranno opposizione “costruttiva” (Renzi e Calenda hanno già dichiarato disponibilità a discutere con la maggioranza un’eventuale riforma costituzionale), per altre il passaggio potrebbe non essere così scontato. Senza giri di parole: come si comporterà il PD nei confronti di una forza politica prossima a governare, che è stata strategicamente dipinta come “nemico della democrazia” da ben prima della campagna elettorale? Difficile pensare a un’opposizione “costruttiva”, ma altrettanto arduo è pensare che i Dem, coi loro numeri risicati (sessantacinque deputati e trentacinque senatori, ndr), possano sbarrare granché il passo al governo che sarà.

Resta comunque improbabile un’apertura anche solo minima alla prossima maggioranza. Di certo ci saranno temi caldissimi da discutere sin dal primo giro di giostra (per esempio una legge finanziaria da portare a casa entro fine mese), e sembra piuttosto improbabile uno scenario come quelli visti alla fine della passata legislatura, i cui provvedimenti godevano di larghissima maggioranza in Parlamento. Troppe e troppo profonde le differenze: come potrebbe un partito che ha incentrato la propria campagna elettorale sulla demonizzazione dell’avversario (accusato di essere partito post-fascista e visto come pericolo di deriva anti-democratica) ora andarci d’accordo su temi che non sono mai stati condivisi tra i

La Premier in pectore Giorgia Meloni

due?

Accettazione

D’altro canto, in Italia non c’è solo il PD, che per di più si appresta a cambiare nuovamente segretario (e forse qualcosa di più). Nel resto del Paese chiunque abbia puntato il dito contro Fratelli d’Italia per la sua simbologia (si veda la fiamma nel simbolo) o per le sue radici ideologiche dovrà fare i conti con la realtà dei fatti: gli italiani, fiamma o non fiamma, hanno scelto loro. E a chi non deciderà per l’esilio politico, l’arduo compito di fare buon viso a cattivo gioco: i “fascisti” sono al governo. Del resto, delle accuse di post-fascismo, si è parlato grandemente in campagna elettorale. Dopo un mese, si sa, la notizia è avvizzita, l’interesse in fin di vita. Si faccia caso a un dato curioso, figlio di osservazioni personali: da fine settembre è ormai cosa comune trovare giornalisti storicamente vicini alla destra in diverse trasmissioni che prima erano molto restie a invitarli nei propri talk showCerto, l’audience non ha colore politico, ma questo porta forse l’indicazione che anche i media prima avversi (o comunque discordi) ora devono fare i conti con la realtà politica, e basare le proprie posizioni più sui temi che sulle bandiere (“Ah, se si fosse fatto prima…”, commenteranno le malelingue).

Il logo di Fratelli d’Italia, dove spicca la fiamma tricolore che richiama al simbolo del Movimento Sociale Italiano (MSI, di dichiarata ispirazione post-fascista)

Certo nessuno può più accusare Giorgia Meloni e il suo partito di essere fascisti. Come si potrebbe, se non con un clamoroso controsenso? Hanno vinto elezioni democratiche, dopotutto: la stessa Meloni ha dovuto giurare davanti al Paese intero come premier (la prima donna, con buona pace, anche qui, della sinistra tutta identità e zero arrosto), ponendo la mano su quella Costituzione che fa dell’antifascismo la sua precisa ragion d’essere. Hanno rispettato le regole democratiche di questo Paese al meglio: niente pestaggi o minacce alle urne, come invece fu agli albori del tanto rievocato Ventennio. Sempre restando sulla chiacchieratissima Meloni, durante la campagna elettorale ha voluto sfruttare la storica occasione per fare anch’ella dei sacrifici: scendendo dall’Olimpo del vittimismo, ha avuto il coraggio di dire con chiarezza che “la destra italiana ha relegato il fascismo alla storia”, e che “non mi dissociai quando Fini dichiarò il fascismo male assoluto.” Troppo tiepido? Tardivo, dopo oltre vent’anni di silenzio ambiguo? Forse, ma di sicuro sufficiente come scudo contro le battaglie puramente identitarie: se c’è qualcosa che il 25 settembre ci ha insegnato è che non si può fermare Meloni (né i suoi sostenitori) senza qualcosa di concreto.

Riposizionamento a destra (moderata)

Insomma, la parabola di Giorgia Meloni “di lotta” sembra essersi conclusa. Ora c’è il governo, risultato inimmaginabile fino a tre/quattro anni fa. Ora, per citare ancora una volta le sue parole a margine dei primi exit poll, “viene il tempo della responsabilità.” Agli osservatori più attenti non sarà sfuggito il proclama che vuole Fratelli d’Italia come partito conservatore d’Italia. Difficile intuire già cosa questo significherà nel concreto: in Italia un partito “conservatore” manca da tempo, con la destra che nelle ultime legislature è stata dominata dall’onda di risentimento leghista (con un Salvini in versione populista e sovranista) o da Forza Italia, anche detta “l’ambasciata di Mediaset a Montecitorio.” Sembra insomma che il progetto voglia Fratelli d’Italia come fulcro di una neonata ala conservatrice italiana, una destra forte ma “moderata”. Qualcosa, insomma, di ben diverso dal partito nato dalle ceneri di Alleanza Nazionale di Fini (coalizione di estrema destra sciolta nel 2009), e che fieramente metteva in mostra nel logo la “fiamma di Almirante”.

Tante speculazioni si potrebbero fare sulla “Meloni che sarà”: sarà “di lotta” o “di governo”? Inflessibile sui diritti civili, o attenta alle istanze del suo tempo? Sovranista in materia europea, o incline a discutere con Bruxelles? Troppe le incognite per delle risposte certe, ma qualche indizio (al netto dei Ministri) già si ha. La nostalgia del secolo scorso sembra già archiviata in favore della costruzione di un polo forte di destra, che sia capace non solo di governare (e per quanto?), ma anche di strappare al PD, più debole che mai, la sua egemonia. Ci sarà molto da fare in materia di energia, economia e sulla guerra in Ucraina: ma su tutte queste tematiche il percorso è già segnato. Il debito pubblico oltre il 150% renderà impossibili grandi manovre e scostamenti, quindi sussidi e interventi dello Stato saranno soggetti a rigidi controlli sulla base della crescita economica (prevista zero o addirittura in negativo nel 2023). Sul tema energetico urge distaccarsi dalle forniture russe, prima che anche l’ultimo gasdotto abbia misteriosi malfunzionamenti o venga distrutto (qui si potrà forse tornare al tema del nucleare, ma sarà vicenda complessa). Impossibile, del resto, che Meloni faccia passi indietro sul sostegno all’Ucraina: non solo perché lei stessa si è più volte spesa nel sostenere la linea comune europea, ma anche perché discostarsene in questo momento significherebbe isolarsi nella comunità internazionale. Dunque, cosa resta?

Tutto il resto

Resta tutto il resto. Restano i diritti civili, sui quali certo non sarà possibile una netta sterzata, ma è previsto almeno un rallentamento. Tutti i partiti della coalizione di destra (con Forza Italia e Noi Moderati in posizione defilata, a dire il vero) si sono più volte spesi nella guerra culturale contro la “dittatura del politicamente corretto“, e in campagna elettorale non sono stati da meno. Certo, tra la campagna e il governo c’è di mezzo un oceano (non necessariamente l’Atlantico), ma è difficile aspettarsi dal prossimi governo leggi contro l’omotransfobia, la piena parità giuridica delle coppie omosessuali, o un’applicazione della legge 194 (quella sull’aborto) che prescinda quantomeno da una serie di resistenze ideologiche. Un conto sono, infatti, le leggi che ancora non ci sono: esse probabilmente non verranno approvate nel corso dei prossimi cinque anni. Ma per quel che riguarda quelle già esistenti? Verranno applicate?

L’esempio dell’atteggiamento adottato nei confronti dell’applicazione della legge 194 è, ancora, solo una traccia, un indizio. Non ci racconta nel concreto che Italia sarà quella di Giorgia Meloni, ma ci dà spunti. Per dichiarazioni stesse di esponenti di Fratelli d’Italia, sembra logico aspettarsi che sarà garantita a tutte le donne la possibilità di abortire, quando esse abbiano vagliato tutte le opzioni possibili e ne abbiano possibilità. A fare la differenza allora non sarà un governo autoritario che proibisce, ma bensì (come già accade, in effetti) il medico curante: se rientra nei due terzi di obiettori, sarà necessario lanciarsi in un’epopea alla ricerca del terzo mancante. Il dato significativo è proprio questo: a fare la differenza, nello Stato, è il corpo civile che lo compone, più che le sue istituzioni. L’Italia potrebbe tornare alla monarchia, ma se gran parte dei cittadini si rifiutasse di riconoscerla come tale, ecco che la neoeletta Maestà si ritroverebbe presto senza regno. Ma che succede se, in una democrazia rappresentativa liberale, la maggioranza relativa elegge una forza politica che fa campagna su una contrapposizione, più o meno evidente, con questo stesso sistema?

…e anche di più?

Il neoeletto Presidente del Senato Ignazio Benito Maria La Russa

Ovvio: il 25% dei votanti (o il 15% degli italiani aventi diritto, che dir si voglia) non può essere definito “fascista”. Se quasi due italiani su dieci lo fossero, il Paese si ritroverebbe già in una situazione ben diversa. Eppure il neoeletto Presidente del Senato, Ignazio Benito La Russa, non ha mai nascosto simpatie post-fasciste, e di lui esistono più ritratti col braccio teso che non. Molti tra gli eletti di Fratelli d’Italia hanno alle spalle un curriculum simile, così come molti alleati storici. Forse allora è qui che sta, ancora una volta, l’errore di chi ha fatto campagna “contro”, ma non “per”. Forse, rinchiusa nel privilegio della propria superiorità morale, dall’alto della propria torre d’avorio, una certa classe politica ha vigilato solo sul fascismo dentro alle istituzioni, dimenticandosi che il Paese lo fanno i cittadini. E forse (ma ancora, siamo nell’abito delle speculazioni), se questa classe politica avesse tratto insegnamento dalla storia e si fosse presa cura degli ultimi (invece che guardare ai simboli di pochi), questi non si sarebbero scoperti sensibili all’odio, alla guerra tra poveri (lavoratori sfruttati contro percettori di RdC), disposti a ignorare la fiamma pur di credere che nelle istituzioni qualcuno li ascolti. Sono molti, hanno fame e sono arrabbiati. E che piaccia o no, l’Italia, nei prossimi cinque anni e oltre, non la farà la Meloni, ma loro.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.