Era il 1993 quando tutto ebbe inizio. Era il 1993 quando dall’omonimo romanzo di Michael Crichton, Steven Spielberg realizzava Jurassic Park, dando vita a uno dei fenomeni cinematografici più impattanti degli ultimi trent’anni. Un fenomeno in grado di rivoluzionare la settima arte mescolando fantascienza, avventura, atmosfere thriller e dinamiche action. Un’opera rimasta negli annali, fondata su un senso “wonder” che poche altre opere hanno saputo eguagliare; un’opera capace di ispirare una vera e propria saga, oggi composta da una prima trilogia (Jurassic Park I, II e III) e da un rilancio più recente ancora in fase di completamento (il progetto Jurassic World).
Nonostante però l’importanza e la magnificenza del primo film, nonché la buona riuscita del suo primo sequel (Il mondo perduto), la saga, almeno dal punto di vista qualitativo, non ha purtroppo saputo mantenersi ad alti livelli. Anzi, lo sfacelo cinematografico, iniziato da Jurassic Park III, ha trovato terrificanti conferme nei due Jurassic World rilasciati fino ad ora. Pellicole che, ideate come prosieguo delle avventure a tema preistorico, e arrivate al cinema ben 14 anni dopo il termine della prima trilogia, hanno ben presto rivelato un un’anima blockbuster fin troppo evidente, sacrificando idee e qualità sull’altare del botteghino.
In attesa di Jurassic World – Dominion, previsto per l’estate 2022, è dunque lecito domandarsi dove risiedano le principali debolezze dei suoi due predecessori. Con l’augurio, forse vano, che il terzo (o sesto) e ultimo film della saga possa regalare qualche gioia anche ai cinefili.
AAA Cercasi intelligenza
Jurassic World (2015), primo tragico tassello della nuova trilogia, ci presenta un mondo che, a distanza di vent’anni dagli eventi del capostipite Jurassic Park, ha realizzato il sogno che fu di John Hammond, riuscendo a dare vita a un parco di dinosauri dislocato sulla medesima Isla Nublar che tanto fece penare Alan Grant e compagnia. Esperimenti genetici di nuova fattura creano però un mostro che, liberatosi, semina il panico tra i turisti, provoca la distruzione dell’intero parco e costringe tutti ad abbandonare l’isola.
Il regno distrutto, sequel del 2018, si apre invece con un improvviso allarme vulcano che mette a repentaglio la sopravvivenza dei dinosauri sull’isola da loro conquistata. Da qui l’idea a dir poco geniale di una spedizione che possa salvare alcune delle specie del parco. Ma tra bracconieri, nuovi esperimenti genetici e cloni umani tutto va di nuovo storto e gli “animali”, un tempo confinati nel Costa Rica, si impossessano del mondo civile.
Due brevi e stringatissime sinossi che riescono però a ben riassumere la stupidità cronica alla base dei soggetti delle due pellicole.
L’idea di un parco aperto ai visitatori, dopo le vicissitudini e le implicazioni etico-morali emerse nei primi film, è a dir poco assurda e priva di senso. Ma la volontà di salvare specie che non dovrebbero più esistere e che una miracolosa eruzione vulcanica sta finalmente per ricancellare dalla faccia della Terra, rappresenta un vero e proprio suicidio dell’intelligenza. La prova provata che, con ogni probabilità, sarebbe il genere umano a meritare una sacrosanta e definitiva estinzione.
Chi “ben comincia”…
Se le premesse del progetto Jurassic World sono un insulto all’acume, il successivo svilupparsi degli avvenimenti segue una logica che potremmo eufemisticamente definire demenziale. Le sceneggiature di entrambe le pellicole sono infatti un vero e proprio colabrodo, costellato di personaggi masochisti e decisioni assurde, volti alla costruzione di una trama per lo più idiota e priva di senno. Dinosauri rimessi in libertà, improbabili esperimenti, ragazzini sciocchi, velociraptor trattati come cagnolini, tacchi alti e comicità gretta. Tutto grida all’orrore e al sacrilegio. Tutto grida allo stupro di un grande marchio e di un cinema rivoluzionario.
A condire questa deliziosa pietanza è un cast di interpreti che, sebbene ne Il regno distrutto appaia vagamente più sopportabile, dà invece il peggio di sé in Jurassic World. A “convincere”, anche se con notevoli riserve, è il solo Chris Pratt nei panni dell’esperto comportamentale Owen Grady , circondato da un’accozzaglia di depensanti (dalla Claire di Bryce Dallas Howard, ai fratelli Gray e Zach Mitchell, passando per il dott. Henry Wu) a cui il pubblico non può che augurare una morte lenta e dolorosa.
Il colpo di grazia
A segnare il definitivo colpo di grazia è, quantomeno sotto alcuni aspetti, il comparto tecnico delle due pellicole.
A onor del vero la regia di Juan Antonio Bayona, direttore de Il regno distrutto, è uno dei pochi elementi positivi registrabili. Il cineasta spagnolo si dimostra infatti professionista capace, in grado di dare vita a sequenze visivamente godibili e ricreare, attraverso piacevoli citazioni, il clima di tensione che fece la fortuna dei primi Jurassic Park.
Lo stesso non si può purtroppo dire del collega Colin Trevorrow, fedele riflesso della manifesta mancanza di idee che permea il rilancio del franchise. La regia di Trevorrow si rivela infatti oltremodo piatta e mancante di un qualsivoglia guizzo che possa rivitalizzare una materia già di per sé tutt’altro che entusiasmante.
Deludente anche l’utilizzo della CGI nel processo di ricostruzione dei dinosauri, il più delle volte traballante e spesso notevolmente inferiore agli effetti che quasi tre decenni or sono riportarono in vita gli amati fossili per la prima volta. Mancanze che il budget milionario di questi film non possono certo giustificare e che, ancora una volta, si ergono a simulacro di una mentalità imprenditoriale che troppo spesso dimentica cosa significhi fare cinema.
Con buona pace di Steven Spielberg.