La morte della Regina Elisabetta II, avvenuta lo scorso 8 settembre, ha messo fine al secondo regno più longevo della storia (superato solo da quello di Luigi XIV). In mezzo allo stupore globale, davanti all’addio di una delle figure più rappresentative del secolo breve, suo figlio Carlo è salito al trono con il nome di Carlo III. Oggi ci si chiede allora se, in un’epoca di democrazie e Stati moderni, il regno inglese continuerà a sopravvivere o se la sua stessa inattualità ne decreterà la morte.
La monarchia inglese oggi: formalità e rappresentanza
Formalmente Carlo III, il re del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, possiede tutti e tre i tre poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) di uno Stato democratico. Praticamente, però, è il Parlamento che detiene realmente il potere. La funzione della monarchia inglese oggi è quindi prettamente formale e rappresentativa. Formale perché il re detiene quelle che sono chiamate “prerogative” reali: s’incontra settimanalmente con il primo ministro (dal 6 settembre 2022, Liz Truss) e può esprimere le proprie opinioni, anche se poi è tenuto a rispettare le decisioni del Parlamento. Può poi formalmente dichiarare guerra o pace, e nominare e destituire il primo ministro.
Il suo potere è, però, soprattutto rappresentativo. Guidata da un’agenda dettata da cerimonie e apparizioni pubbliche, quella inglese è sicuramente la monarchia più popolare al mondo. È una delle monarchie più antiche e, per secoli, è stata anche la più potente, a capo di un vastissimo impero coloniale. Ancora oggi il suo regno è molto esteso: la monarchia inglese è infatti anche a capo degli Stati del British Commonwealth (organizzazione intergovernativa di cinquantasei stati indipendenti, per la maggior parte accomunati da un’antica appartenenza all’impero coloniale britannico), tra i quali Canada, Australia e Nuova Zelanda.
Identificazione e illusione: l’eterno fascino della corona
In un’epoca che «La Repubblica» definisce “del pop“, la monarchia inglese continua a godere di un grande supporto, come è stato testimoniato dalla folla che si è riunita davanti ai cancelli di Buckingham Palace, il palazzo reale di Londra, per cantare l’inno “God Save the Queen” poche ore dopo l’annuncio della morte della regina.
London taxi drivers lined up along the Mall this evening to pay their respects to the Queen following the news of her death.
🗞 Read the full Times obituary of Queen Elizabeth II here: https://t.co/22lRgce0sC pic.twitter.com/MSdKRF7fdy
— The Times and The Sunday Times (@thetimes) September 8, 2022
L’entusiasmo che tanti inglesi mostrano verso la monarchia, nonostante la sua funzione meramente formale, è simbolo della forza rappresentativa di questa, del suo potere identificativo, della sua capacità di raccogliere il sentimento inglese e inglobarlo. La corona è emblema del Regno Unito stesso: lo è stata durante la Seconda Guerra mondiale quando Buckingham Palace venne bombardato mentre al suo interno erano presenti i reali, lo è stata durante il (poi problematico) “matrimonio del secolo” tra l’allora Principe Carlo e Lady Diana e lo è ancora oggi.
Accanto alla sua portata identificativa, la monarchia inglese è molto affascinante perché regala ancora l’illusione di una favola. Nel palazzo reale il lato estetico è ancora oggi molto importante. Elegante, preciso e a tratti fiabesco, vuole suggerire l’idea che principi e principesse esistano ancora. Tutto su misura e creato da tessuti pregiati, il guardaroba reale è l’ultimo ricordo di una tradizione ricca, di una famiglia potente e di un impero che dominava su tutti gli altri.
L’inattualità di un’istituzione costosa e fuori dal tempo
Nonostante la monarchia goda ancora di largo consenso, questa è anche vittima di critiche e dubbi di gran parte della popolazione. La principale delle critiche mira a questionare l’utilità di un’istituzione come quella della monarchia inglese nel XXI secolo. In un’epoca in cui l’Occidente è dominato da Stati repubblicani e democrazie, il mantenimento della famiglia reale sembra avere una mera funzione estetica.
I dubbi riguardano sicuramente le spese necessarie al mantenimento di un’istituzione che non ha reali funzioni di governo. Una delle maggiori fonti di guadagno della regina arriva infatti direttamente dal governo britannico. Si chiama Sovereign Grant il nuovo sistema di finanziamento della corona inglese, introdotto nel 2012. «Agi» scrive a riguardo: “le spese ufficiali della Regina sono pagate con fondi pubblici, e in cambio la Regina cede ai sudditi tutti i guadagni provenienti dal Crown estate, un portafoglio finanziario di proprietà della Corona britannica”. Il Sovereign Grant per l’anno 2022-2023 è di 86,3 milioni di sterline, secondo il Financial report ufficiale della royal family.
In secondo luogo, dubbi riguardanti la modernità della corona si affiancano alle controversie che l’hanno spesso attraversata. A partire dall’esclusione e la morte dell’amata Diana Spencer, ex moglie di Carlo, alle figure ambigue di Harry e Meghan, i problemi che sembrano ormai statisticamente colpire la royal family ne hanno decretato una perdita di consensi. Questo sentimento anti-monarchico è dato soprattutto dall’approccio estremamente conservatore con cui la monarchia ha spesso dimostrato di gestire le sue dinamiche interne. Risalgono a un anno fa le preoccupazioni sul colore della pelle di Archie, primo figlio della coppia in questione: accusando velatamente la corona di razzismo, in un’intervista da Oprah Winfrey, Meghan (afroamericana) aveva raccontato che, quando era incinta, al palazzo c’era chi si chiedeva di che colore sarebbe stata la pelle del figlio.
L’impero coloniale nell’epoca della cancel culture
“La monarchia inglese non sopravviverà al regno del principe William”, queste le parole della scrittrice britannica Hillary Mantel al «Telegraph» nel 2021. Oggi, dopo la scomparsa di una figura che tutti credevano essere immortale, è lecito chiedersi se la romanziera non avesse ragione. Accanto al consenso, infatti, forti correnti anti-monarchiche minacciano la famiglia reale. Prima fra tutte le accuse, spicca quella di un passato coloniale troppo ingombrante per essere perdonato, soprattutto nell’epoca della cancel culture. Su «La Repubblica» si legge che la cancel culture è: “l’atteggiamento all’interno di una comunità che richiede o determina il ritiro del sostegno a un personaggio. Vale a dire una forma di ostracismo, o boicottaggio, di un personaggio che, per esempio, ha espresso opinioni razziste o è accusato di molestie sessuali.”
Accusata di colonialismo, violenza, razzismo, schiavismo, oppressione e sfruttamento, il passato inglese sembra rischiare la cancellazione e, con lui, anche la stessa monarchia britannica. Ne è un esempio il forte gesto compiuto da una senatrice aborigena australiana, Lidia Thorpe, nei primi giorni di agosto. Durante il suo giuramento in Parlamento, infatti, Thorpe ha confermato la sua fedeltà alla regina Elisabetta II (anche capo di stato dell’Australia), ma l’ha fatto definendola chiaramente una “colonizzatrice”.
Irlanda del Nord: l’indipendentismo anti-monarchico
Ad aggravare e dare dimensioni maggiori alle spinte anti-monarchiche si aggiungono sicuramente due delle nazioni costitutive del regno: Scozia e Irlanda del Nord. Entrambe vivono al proprio interno forti spinte indipendentistiche, acuitesi al seguito della Brexit: il risultato del malcontento è l’esistenza di due guerre a bassa intensità contro il regno e contro la monarchia stessa.
Mentre cresce anche il Partito Nazionale Scozzese, l’Irlanda del Nord soprattutto spinge per l’indipendenza dal Regno Unito e la riunificazione alla Repubblica d’Irlanda. Dopo la vittoria del partito indipendentista Sinn Féin alle elezioni di maggio, la nazione irlandese è governata per la prima volta da un partito anti-unionista. Mentre «ISPI» parla di “forze centrifughe che potrebbero portare all’implosione del Regno Unito”, risulta ovvio quanto la stabilità della monarchia risenta negativamente delle spinte indipendentiste di Scozia e, soprattutto, dell’Irlanda del Nord. Significativo è sicuramente il fatto che dopo la sua incoronazione re Carlo III sia volato a Belfast: per rimarcare che, nonostante tutto, la regione sia ancora sotto il potere della monarchia?
Ci sono caratteristiche storiche, sociali e culturali che fanno in modo che gran parte della nazione irlandese non sia a sostegno della monarchia inglese. Innanzitutto il monarca è a capo del Regno Unito. È un simbolo di quello stesso regno da cui gli indipendentisti nord-irlandesi vogliono uscire per riunificarsi con la parte sud dell’isola. Una seconda differenza è di carattere religioso: nonostante in Irlanda del Nord una gran parte della popolazione sia protestante, la presenza dei cattolici non è irrisoria. Questi ultimi si scontrano quindi con il carattere religioso della monarchia, a capo della chiesa anglicana. Da non dimenticare anche il carattere politico: la monarchia (nonostante i suoi poteri siano in gran parte solo formali) è il simbolo dell’accentramento del potere, del governo di uno sui più, del conservatorismo. Al contrario, le spinte indipendentistiche di Belfast si caratterizzano come repubblicane e, soprattutto, di ispirazione social-democratica. La domanda da porsi quindi è quanto queste differenze incideranno effettivamente sulla stabilità della monarchia e se, insieme ad altri fattori, ne decreteranno la fine.
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