Luigi Amedeo di Savoia: Karakorum 1909

L’inizio dell’avventura

Dopo aver scritto il 6 gennaio una lettera di invito a Vittorio Sella, suo storico accompagnatore oltre che fotografo, il Duca Luigi Amedeo di Savoia ricevette il permesso dalle autorità britanniche per scalare il K2 e di eseguire esplorazioni e rilevamenti nella regione del Baltoro, al fine di disegnarne la mappa.
Il 26 marzo il Duca e i suoi compagni (Federico Negrotto di Cambiaso, Filippo De Filippi, Vittorio Sella, Erminio Botta, Joseph e Laurent Petigax, Alexis e Henri Brocherel, Emil Brocherel, Albert Savoie ed Ernst Bareux), si imbarcarono a Marsiglia direzione Bombay e da qui in treno verso Rawalpindi, che si trova a sud del Karakorum.

I primi passi

L’avvicinamento al Baltoro fu molto arduo per via dei suoi passi innevati da superare, fiumi da attraversare e vaste zone desertiche da percorrere. Alla stazione di Rawalpindi vennero scaricati dal treno centotrentadue “colli” trasportati prima a Srinagar, nel distretto del Kashmir, dove il Duca Luigi Amedeo di Savoia si accordò con dei portatori locali e poi verso la valle del Sind da dove ebbe inizio la marcia verso Skardu, raggiunta l’8 maggio dopo undici giorni e 362 chilometri. Da Skardu proseguirono per altri undici giorni verso Askole, attraversarono il fronte del ghiacciaio del Biafo e giunsero ai piedi del Baltoro.

Vita al campo base

Filippo De Filippi descrive così il campo base:

L’Urdukas situato sulla costa occidentale di un grande contrafforte della catena meridionale del Baltoro è luogo adatto a meraviglia per farvi lunga permanenza con un buon contingente di coolie. La costa è tutta coperta di erba secca dell’anno passato. Un’immensa antica frana ha cosparso il pendio di blocchi giganteschi di granito, taluni grandi come case, accatastati alla rinfusa e inclinati a vari gradi, i quali formano ripari, grotte, caverne capaci di ospitare centinaia di coolie.

I primi tentativi

Oytak valley.

Il 1 giugno il Duca e i Petigax accompagnati da tre portatori valdostani raggiunsero sullo sperone un’altezza di 5560 dove posero il campo quattro. Il giorno dopo, padre e figlio Petigax tentarono la sella. Dopo aver raggiunto il canale dove avevano lasciato le corde, notarono una fascia di roccia rossastra: era una parete esposta che portava alla vetta e pensarono di attrezzarla. Tornarono al campo e riferirono la situazione al Duca: avevano raggiunto un’altezza tra i 6200 e i 6700 metri.

La spedizione non era finita. Il Duca diresse un nuovo tentativo su per un ampio ghiacciaio sul versante sud-ovest del K2, ma furono ingannati dalla presunta facilità: era ripido, colmo di crepacci, percorso da valanghe e il sole abbagliante unito alla mancanza di ossigeno rendevano penoso ogni passo. Arrivarono a 6666 metri e impossibilitati dalla fatica, tornarono al campo.

Ci accomiatiamo con parole di augurio, ma senza riuscire a nasconderci l’incertezza che proviamo riguardo l’esito del tentativo avventuroso. Il fatto è che questi sono monti ai quali non si può guardare senza turbamento, sfingi colossali che sembrano racchiudere misteri paurosi; e dinanzi a esse riproviamo forse la consapevolezza della nostra debolezza nell’impari duello che deve aver turbato l’animo dei primi salitori delle Alpi.

L’ultimo tentativo e la gloria

Il 4 luglio il Duca tentò nuovamente con Vittorio Sella i quali attraversarono nevai e crepacci cosparsi di blocchi di ghiaccio e, costretti dal tempo, misero le tende a 5821 metri. Quando questo ritornò clemente, il Duca salì con le guide fino a 6333 metri e il giorno successivo, raggiunsero 6606 metri fino a piazzare il campo a soli 800 metri dalla vetta.

Le piccozze affondavano fino all’impugnatura, e nessuno si illudeva che avrebbero potuto trattenere la carovana, se la neve fosse partita in valanga. Non si vedeva nulla, da ogni lato si aprivano sotto di loro abissi senza fondo. La roccia era buona, dopo due ore S.A.R credeva quasi d’essere alla cresta terminale; invece un altro tratto di costa nevosa sorgeva indistinta. Proseguire così alla cieca, sopra un pendio di inclinazione sconosciuta, orlato di una grossa cornice e coperto di neve pericolosissima, sarebbe stata pazzia, e approfittarono per aspettare, contro ogni speranza, che un colpo di vento spazzasse via il nebbione. Il barometro Fortin segnava 312 millimetri di pressione, -6° C, la tensione di vapore millimetri 4,18. Questa rilevazione diede un’altezza di 7498 metri.

Conclusioni

Un articolo della «Stampa» del 17 febbraio del 1910 racconta nei dettagli la conferenza che Luigi Amedeo tenne nel teatro di Torino:

Se in altre circostanze io presi parola per far conoscere i risultati di imprese coronate da completa riuscita, questa volta debbo parlare delle vicende di una spedizione che non ha completamente raggiunto il suo scopo prefisso. Ma la stessa sincerità alla quale mi sono ispirato nel racconto delle altre spedizioni, mi sarà fedele compagna anche per questa meno fortunata, affinché le mie note possano essere utili a coloro che vorranno ancora tentare di salire le eccelse vette dell’Himalaya.


Fonti

Filippo De Filippi, Il Duca degli Abruzzi e Filippo De Filippi nell’Himalaya, 1909, White Star, Vercelli 2006, pp.194.

LaStampa, 17 febbraio 1910, n. 48, p. 5.

 

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