Ormai è scontato affermarlo, ma i social media hanno raggiunto una tale radicalizzazione nella nostra vita quotidiana da affermarsi come attività quasi necessaria per molti.
Un po’ di dati
Il 2020, l’anno della pandemia, tanto per fare un esempio, ha dimostrato numeri significativi anche a prescindere dalle ovvie particolari contingenze. Si stima che, ogni mese, oltre quarantatré milioni di italiani si siano connessi a una piattaforma social (su una popolazione totale di circa cinquantanove milioni). Va tenuto in considerazione che ogni volta che questi numeri vengono presi in esame essi si riferiscono unicamente alla fascia d’età 18-75 anni, non tenendo conto delle interazioni dei minori. È altamente probabile dunque che questi numeri siano molto imprecisi al ribasso.
La piattaforma preferita è sempre lei, Facebook, con un traffico utenti superiore ai trentasei milioni al mese. Segue YouTube con trentacinque milioni e chiude il podio Instagram, con i suoi ventotto milioni di accessi mensili. A voler fare un calcolo statistico spicciolo, si può stimare che quasi il 73% degli italiani utilizzano, e per tempo prolungato, i vari social. L’ormai affermatissimo TikTok vanta addirittura un tempo medio di cinque ore al mese di permanenza, molto alto se si tiene in considerazione l’ampia fascia d’età presa in esame. Regna però incontrastato, anche qui, Facebook, sul quale sette italiani su dieci passano almeno dodici ore al mese.
Nonostante lo stereotipo mostri l’adolescente medio come un consumatore dipendente da contenuti digitali, la regina Facebook vede l’età media di oltre la metà dei suoi utenti oltre i trentacinque anni. Questi dati trovano parziali conferme anche su altre piattaforme ‘sospettabili’, quali Twitter e Pinterest. Ormai la popolazione del web è sempre meno giovane, complici il suo radicamento sempre più capillare negli anni e l’inevitabile ‘adattamento’ anche di fette sempre più ampie di generazioni precedenti.
Troppi dati
Nell’ecosistema delle nuove generazioni, e non solo, l’identità di un individuo è ormai, almeno in minima misura, definita dalla sua presenza su uno o più social. I profili raccontano spesso un ‘sunto’ (raramente realistico, peraltro) di chi siamo come persone, a prescindere che questo sunto sia introdotto sotto forma di foto, pensieri o commenti pubblicati o anche da interazioni ‘passive’, quali i ‘mi piace’ messi a determinati post e pagine, i commenti lasciati sotto di essi, le conversazioni (pubbliche o private, fa sempre meno differenza) avvenute tra i diversi utenti.
Tutto questo fiume di dati, ogni giorno più denso e impetuoso, diventa di fatto un algoritmo che ci rappresenta, e che in parte ci definisce, addirittura. Sì, perché è ormai accertato da inchieste e persino sommi processi che queste nostre interazioni hanno un riflesso su ciò con cui ci interfacceremo nel futuro, e sul modo in cui lo faremo. Se siamo particolarmente portati ad apprezzare certi prodotti e discussioni, la piattaforma si adeguerà alla nostre ‘esigenze’, portandoci a vederne in quantità sempre maggiori.
L’effetto collaterale di questo apparente servizio è che sia mirato alla ‘fidelizzazione dell’utente‘, cioè in pratica a farci passare più tempo sulla piattaforma. E il metodo più efficace per raggiungere questo obiettivo è stimolare costantemente la biochimica del nostro cervello e delle nostre emozioni tramite contenuti che possano scatenarle, a prescindere da quali questi siano. Una (più o meno dotta) diatriba circa i massimi sistemi della geopolitica (o un derby) catturerà le passioni più di un meme, perché coinvolgerà il conflitto, il quale a sua volta susciterà in noi una serie di emozioni che ci terranno attaccati alla questione, mettendola in primo piano e spesso trascurando tutto ciò che sta fuori dalla sfera eterea.
Morbo virtuale, problema concreto
Questa strategia non cambia soltanto la nostra esperienza sui social media, ma anche i nostri modi di approcciarci col resto del mondo (la BBC ne fa un buon sunto qui), facendo scattare un vero e proprio clima di competizione e, di conseguenza, conflitto. Scusate per il cliché.
La competizione, va da sé, si manifesta in ogni forma possibile: discussioni sportive, scientifiche, politiche, ideologiche, estetiche… Sembra che nessun campo di conversazione sia del tutto immune all’arcinoto fenomeno della polarizzazione, che porta ognuno a radicalizzare le proprie posizioni in contrasto con quelle diverse. Il che diventa ancora più evidente e trasversale a livello generazionale quando le tematiche si compenetrano col dibattito pubblico, integrando avvenimenti di cronaca sociale o politica.
Chiunque ha ora la possibilità di esprimere la propria opinione in merito a qualsiasi argomento, a prescindere da fattori prima ritenuti cruciali quali la competenza o l’esperienza, attraverso un megafono che rende la sua voce potenzialmente efficace al pari di tutte le altre – con le ovvie eccezioni di chi, in questa realtà parallela, ha megafoni più grandi e platee incomparabili in termini numerici di followers. Quando, per esempio, gli ormai onnipresenti ‘Ferragnez‘ si inseriscono nel dibattito publico, lo fanno sfruttando una potenza di fuoco tale da permettergli di farla risuonare con frequenza pari a quella degli abituali padroni di quel campo, come la politica.
L’evoluzione del dibattito
Va da sé, per tutte le ragioni sopra evidenziate, che ogni evento venga in diverse misure a catturare l’attenzione di platee sempre più vaste e combattive. Gli schieramenti che si formano nella sezione “commenti” sotto ogni tipo di post appaiono spesso come agguerriti eserciti, l’un contro l’altro armato. Il dibattito social acquista così non solo fronti polarizzati, con effetti tanto evidenti quanto deleteri sul dibattito pubblico dentro e fuori dalla dimensione virtuale, ma anche toni sempre più accesi.
Il fenomeno dei ‘leoni da tastiera’ è un altro cliché trito e ritrito sul tema social media, ma con un fondo di ragione. Protetto dalla collocazione del conflitto su un piano di fatto non fisico, l’utente-consumatore può dar sfogo a tutte le passioni generate dal tema, assicurandosi chances di imposizione della stessa equivalenti a quelle del suo avversario, a prescindere dalla sua ‘reale’ identità. È un aspetto, questo, da non sottovalutare: la schermaglia verbale avviene nell’interazione non tanto di due individui, quanto piuttosto di due algoritmi, di due fasci di dati.
Questa considerazione non è soltanto ‘filosofica’, ma anche molto concreta: l’avversario – esplicito o meno – viene disumanizzato agli occhi di chi partecipa e di chi assiste al dibattito, e la sua identità viene ridotta a poche stringhe di parole che vengono fissate in uno spazio che non esiste, in una sorta di gogna mediatica. Guai a presentare insicurezze, errori grammaticali (o più semplicemente di battitura) o a scrivere di getto qualcosa che non sia inattaccabile: si verrebbe inevitabilmente sommersi da critiche e correzioni, ben lo sanno i vari VIPs che si sono visti massacrare dall’opinione pubblica per via di momentanei e altrimenti insignificanti scivoloni.
Naturalmente, in una conversazione in carne ed ossa, si è generalmente più prudenti ad attaccare così selvaggiamente l’interlocutore. Verba volant, scripta manent. E poi è raro ritrovarsi a replicare lo stesso modello sia in un dibattito virtuale che in uno fisico: la persona davanti a noi è – appunto – una persona in carne ed ossa, con un universo di conoscenze, caratteristiche e complessità a noi sconosciute. Nell’interazione social sembra mancare in toto l’elemento umano: l’interlocutore è spogliato della comprensione e del rispetto che si porterebbe solitamente nei confronti dell’altro.
Un futuro incerto
Anche questo fa parte degli effetti deleteri che talvolta hanno i social media: l’alienazione. In un mondo fatto di prodotti immediati e preconfezionati per suscitare emozioni e pensieri prestabiliti, è fin troppo semplice dimenticare l’interazione umana. L’esposizione, ormai solo in parte volontaria, a un servizio che ha la funzione di sintetizzarci in algoritmi sempre più completi, sembrerebbe alla lunga starci trasformando, parallelamente, a qualcosa di via via più simile a quegli stessi algoritmi. Saggi, articoli accademici e studi scientifici ben più autorevoli sono già stati scritti e vengono portati avanti ogni giorno sul tema, che è ovviamente ben più vasto rispetto ai micro-aspetti qui considerati. Problemi di rappresentazione di sé, favoreggiamento della pedofilia e incapacità di prendersi pause dalla socialità sono solo alcuni dei sintomi di questo fenomeno che già abbiamo trattato, e che sono cause dirette di un modello dannoso e ben più esteso, raccontato in maniera molto puntuale da alcuni dei suoi stessi artefici in un fortunato documentario di Netflix dal titolo The Social Dilemma.
Naturalmente, siamo ancora agli albori della storia dei social media. Il web è uno spazio ultra fisico che ha reso possibile la connessione di individui da una parte all’altra del globo in una stanza fatta di interconnessioni continue e flussi di dati costanti. Ci vorrebbe ben poca onestà intellettuale per negare tutti gli effetti positivi che questo ampliamento senza precedenti delle nostre frontiere ha portato, sta portando e sicuramente porterà. Il dilemma, però, è proprio questo: è una tecnologia giovane, ancora immaginiamo appena tutti i risvolti che la sua evoluzione potrà fornire. Nemmeno conosciamo con esattezza tutti i fenomeni che ad oggi sta comportando. Proprio per questo è necessario tenere un occhio vigile e il buonsenso all’erta, o potremmo un giorno dover guardare all’evoluzione della nostra società con profondo e giustificato rimpianto.
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