Il delicato equilibrio tra Taiwan e Cina sembra giocarsi tutto su due semplici numeri primi: 1 e 2. L’idea di una sola Cina è quella che la Repubblica Popolare di Cina difende dal giorno della sua fondazione, il primo ottobre 1949. Due Cine invece sono quelle che Taiwan vorrebbe venissero riconosciute da tutto il mondo.
La storia di questi ideali inconciliabili nasce alla fine della seconda guerra mondiale, quando il Partito Comunista cinese, uscito vincitore dal conflitto, proclama l’istituzione della Repubblica Popolare di Cina. Nello stesso periodo gli sconfitti del Kuomintang, partito nazionalista avverso ai comunisti di Pechino, ripiegarono nella vicina isola di Taiwan, proclamando la Repubblica di Cina. Da allora Pechino ha considerato l’indipendenza di Taipei, capitale taiwanese, un errore di percorso, una piccola sbavatura della storia da correggere al più presto, tanto che in Cina si parla di un piano per annettere completamente l’isola entro il 2049, anniversario della creazione della RPC. Molto diversa è ovviamente la linea di Taiwan, che rivendica la sua sovranità e cerca occasioni per affermarsi internazionalmente come potenza legittima.
Il quadro internazionale
In questa bomba a orologeria che sembrano essere i rapporti tra Pechino e Taipei si inseriscono, capaci di disinnescare temporaneamente le tensioni o appiccare definitivamente la miccia, le relazioni che le altre potenze mondiali intraprendono con le due differenti idee di Cina. Gli occhi sono puntati specialmente sugli Stati Uniti, che fin da subito hanno accettato la politica della “One China” tanto cara a Pechino, salvo poi riconoscere Taiwan come una separata sede di interessi commerciali ed economici.
Recentemente le cronache estere di tutto il mondo hanno riacceso i riflettori sulla piccola isola del Pacifico, protagonista di un intenso braccio di ferro con la Cina di Xi Jinping. Nelle ultime ore Pechino ha infatti più volte invaso le acque e i cieli di Taipei con mezzi da guerra. Sebbene per il momento l’azione della Cina si sia fermata a semplici dimostrazioni, Taiwan lancia l’allarme di un attacco militare imminente e in Occidente c’è già che parla di una possibile “seconda Ucraina”.
Il gioco degli USA
Il 2 agosto Nancy Pelosi, speaker della Camera e Presidente del Congresso americano, è atterrata sul suolo di Taiwan. La visita ha causato un repentino inasprimento dei rapporti tra l’isola e la Cina, con un vertiginoso innalzamento delle tensioni. La visita, sconsigliata dallo stesso Presidente americano Biden ma fortemente voluta dalla Camera, ha avuto il sapore di un riconoscimento informale della sovranità taiwanese, minando alla stabilità del concetto di un’unica Cina.
Nonostante le sanzioni subito partite contro la speaker della Camera, il Congresso statunitense continua a concepire come improrogabile il proprio impegno verso Taiwan. Nelle ultime ore è atterrata a Taipei una delegazione di cinque membri del Congresso guidata dal senatore democratico del Massachusetts Ed Markey. L’obiettivo è quello di discutere con l’alta dirigenza di Taiwan a proposito dei rapporti Washington-Taipei in un nuovo quadro geopolitico, dei commerci e dei prossimi investimenti. Le autorità cinesi per il momento non commentano l’accaduto.
I rapporti con il Giappone
Le difficoltà tra Cina e Taiwan non incrinano solo i sempre delicati rapporti con gli USA, che già pronti ammoniscono di essere perfettamente in grado di gestire un’eventuale crisi aperta con la Cina, ma risveglia anche antiche frizioni mai sopite con Paesi orientali vicini. È il caso del Giappone, che storicamente ha già avuto occasione di individuare argomenti di tensione con Pechino.
Il Giappone considera l’indipendenza di Taiwan un fattore fondamentale per mantenere la propria sicurezza territoriale ed economica. Con l’intensificarsi delle operazioni militari cinesi nel mare intorno a Formosa, il governo nipponico ha ritenuto opportuno accelerare il proprio riarmo, nonché sottolineare i rapporti di buon vicinato che sussistono con Taipei investendo sulle industrie taiwanesi di semiconduttori, inviando a Taiwan oltre un milione di vaccini contro il Covid e acquistando gli ananas locali fatti oggetto di embargo dalla Repubblica Popolare di Cina. Lungi dal voler concedere a Pechino un solo centimetro di Taiwan, Tokyo è anche molto lontano dal riconoscere apertamente la sovranità di Taipei. La Cina resta pur sempre un prezioso partner commerciale che non sarebbe saggio far affondare politicamente, vista anche la pericolosa vicinanza di un’eventuale crisi innescata a Pechino.
Tuttavia la possibilità che la Cina estenda la sua influenza – o addirittura annetta – Taiwan è uno scenario altrettanto indesiderabile per il Paese del Sol Levante. Innanzi tutto la vicinanza di Formosa con l’isola giapponese di Yonaguni costituirebbe un pesante svantaggio qualora Xi Jinping riuscisse ad allargare il suo governo sull’isola del Pacifico; in secondo luogo la presenza cinese a Taiwan implicherebbe il controllo di Pechino sul Mare Cinese Meridionale, zona marittima fondamentale per collegare il Giappone all’Occidente. Infine Pechino a Formosa vorrebbe dire rendere possibile per i commerci cinesi l’accesso libero al Pacifico, bypassando il presidio delle basi americane. Un avvicinamento del Giappone a Taiwan sembra insomma dovuto al fine di contrastare l’ascesa della potenza cinese sul Pacifico, avvicinamento reso più semplice dalla buona opinione che i taiwanesi conservano della dominazione coloniale nipponica tra il 1895 e il 1945.
Le prime conseguenze
La possibilità di un effettivo attacco della Cina a Taiwan è per il momento escluso. Le analisi dal Pentagono affermano che Pechino non sarebbe economicamente e militarmente pronta a effettuare un’azione bellica che le inimicherebbe gli Stati Uniti e l’intera Europa, non in un momento in cui uno dei principali alleati commerciali – la Russia – è impegnato nella guerra contro l’Ucraina e nelle sanzioni che ne sono derivate. In più Pechino ha annunciato la fine delle esercitazioni militari su Taiwan, sebbene continueranno i pattugliamenti.
Intanto però cominciano a notarsi i primi effetti del raffreddamento – che ormai somiglia più a un’ibernazione – dei rapporti USA-Cina. I colossi cinesi PetroChina, China Life Insurance, Sinopec e Aluminum Corp of China hanno infatti annunciato la loro uscita da Wall Street, decisione che causerà una perdita di 310 miliardi di dollari. È la metà del valore di tutta Piazza Affari. La decisione delle industrie cinesi arriva dopo che, già mesi fa, la Securities and Exchange Commission aveva paventato l’espulsione di 273 società cinesi quotate a Wall Street, colpevoli di non fornire adeguate informazioni. La crisi di Taiwan potrebbe portare anche a una revisione dei dazi statunitensi contro Pechino, calmierati dopo l’era Trump.
Il futuro di Taiwan
Ma cosa potrebbe succedere davvero a Taiwan? Il rischio è che Pechino scelga di operare un blocco aeronavale sull’isola, con controlli stringenti e un boicottaggio generale sull’economia di Taipei. Già negli ultimi giorni ha preso il via una campagna di indirizzamento dell’opinione pubblica contro gli Stati Uniti. Molti media in mandarino hanno infatti avvalorato la tesi che vede Washington nemico dell’equilibrio tra Cina e Taiwan. In una tale situazione l’Occidente potrebbe doversi presto abituare a una penuria di componenti per gli apparecchi elettronici e di semiconduttori. A Taiwan ha sede infatti la più grande azienda nella produzione di micro chip al mondo, la TSMC.
In ogni caso però, sebbene lo scenario di un effettivo attacco militare su Taiwan per mano cinese sembri per il momento da escludere, la tragica esperienza della guerra ucraino-russa ha insegnato a rimanere aperti all’imprevedibile e a concepire lo strumento bellico come una possibilità purtroppo non più esclusa dalla politica internazionale.