Il politically correct è un atteggiamento volto a veicolare messaggi socialmente accettabili, che quindi non creino proteste, non offendano la sensibilità della popolazione o di alcune sue parti e che risultino rispettose di tutte le componenti sociali e dei loro bisogni. Il termine si è colorato ormai di un’accezione quasi negativa, tanto che quando si parla di politically correct non pochi alzano gli occhi al cielo e chiamano in causa la dittatura, affermando di non essere più liberi di dire o di fare quello che vogliono.
Il politicamente corretto nel mondo della televisione
Il linguaggio politically correct ha ormai invaso la comunicazione televisiva e non solo, arrivando a permeare anche spot pubblicitari di prodotti assolutamente neutri, che niente hanno a che fare con tematiche sociali. Accendendo la televisione gli esempi si moltiplicano: dalla pubblicità degli assorbenti in cui si scimmiottano i pregiudizi legati al ciclo come l’avere fame o l’essere nervose alla presenza quasi obbligata nelle serie tv di un personaggio straniero o disabile, fino ad arrivare a quello che è forse il più grande sfoggio della filosofia del politicamente corretto: il festival di Sanremo.
Proprio durante il festival più famoso della televisione italiana si sono addensate diverse critiche intorno alla partecipazione di Lorena Cesarini, giovane attrice nata a Dakar e cresciuta a Roma. Se sicuramente il suo monologo sul razzismo è risultato a tutti apprezzabile e profondo, alcune perplessità ha sollevato la sua partecipazione stessa sul palco dell’Ariston. Cesarini infatti non può vantare un curriculum vasto come quello delle colleghe che hanno co-condotto il festival, le famosissime Sabrina Ferilli, Ornella Muti e Drusilla Foer, altra figura chiacchierata della kermesse sanremese. Il dubbio che è stato sollevato è che, molto più che per reale merito, Cesarini sia stata invitata a parlare soprattutto per il colore della sua pelle.
Il rischio di esagerare
La presenza di Lorena Cesarini a Sanremo ha dato la possibilità a molti detrattori del politically correct di inneggiare all’esagerazione. Ciò che avrebbe guidato il direttore artistico Amedeus nella scelta di Cesarini sarebbe una sorta di razzismo «positivo»: esattamente come troppo spesso il colore della pelle influenza in termini negativi le assunzioni, in questo caso le origini africane dell’attrice romana avrebbero giocato un ruolo fondamentale nel suo coinvolgimento al festival della canzone italiana. Il fatto che la scelta abbia effettivamente portato una donna nera sul palco più famoso d’Italia non dovrebbe nascondere che la sostanza dell’atteggiamento è sempre e pur sempre discriminatoria e sintomo che, in fin dei conti, non abbiamo mai raggiunto quell’uguaglianza sociale che il Festival si è tanto impegnato ad ostentare.
Lo stesso ragionamento potrebbe essere applicato a tutte le facce del politicamente corretto. Secondo Nicola Ferrigni, professore associato di Sociologia dell’Università «Link Campus University» di Roma, è necessario dosare con attenzione i riferimenti a tematiche sociali, cercando di non inserirle casualmente in contesti che non richiederebbero tali richiami. L’effetto potrebbe infatti essere quello di rimarcare una distanza, di dimostrare ancora più chiaramente la diversità tra gruppi sociali. Il fatto che certe tematiche siano pressoché onnipresenti negli spot e nei vari programmi televisivi «ci fa capire che l’inclusione e la parità di genere non sono ancora state raggiunte perché quando le hai raggiunte davvero non hai bisogno di inserirle in ogni pubblicità, in ogni film o serie tv», commenta Ferrigni ai microfoni di Huffpost.
Tutto deve cambiare perché tutto rimanga lo stesso
Quanto dista ancora la nostra società dalla tanto agognata uguaglianza sociale, sia questa di genere, etnica o riguardo l’orientamento sessuale? Quante delle iniziative che si sforzano di essere inclusive sono effettivamente dettate dal desiderio di costruire una comunità più egualitaria e quali invece costano solo di un’apertura falsa e volta semplicemente a non attirare antipatie? Per rispondere a queste domande basterà scorrere alcuni eventi che hanno colpito l’opinione pubblica del nostro Paese. Uno degli ultimi e più lampanti esempi è certamente l’elezione del Capo dello Stato, che ha visto la conferma al Quirinale di uno stanco ma responsabilissimo Sergio Mattarella. Nelle settimane appena precedenti allo scrutinio delle schede molto si era parlato della possibilità di eleggere una presidente donna (ne avevamo parlato qui).
Nel miraggio di una politica capace di abbattere le differenze di genere erano stati coinvolti un po’ tutti, dagli esponenti di partiti tanto di sinistra quanto di destra ad illustri personalità dello spettacolo. Fatto sta che al colle siede ancora un uomo e che, anche durante le fasi più movimentate della scelta, non si è davvero mai concretizzata una proposta veramente valida per la prima presidente donna della Repubblica italiana. La sensazione insomma è che anche in questo caso il tema dell’uguaglianza di genere nelle cariche più importanti dello Stato sia stato ridotto ad un politicamente corretto di facciata che nasconde una profonda disuguaglianza latente e difficile da ammettere in una società moderna come quella italiana.
Un ragionamento simile può essere applicato anche alla questione ambientale. Risuonano ancora chiari e accusatori i «bla bla bla» con cui Greta Thunberg ha descritto le azioni della politica internazionale per quanto attiene all’innovazione eco-friendly, perentorio monito che ricorda ai leader della terra che le parole non bastano e che il nostro Pianeta richiede ben altro tipo di sforzo. Anche in questo caso sembra che, per dirlo con una citazione di gattopardiana memoria, «tutto cambi perché tutto rimanga lo stesso»: l’evoluzione dei tempi e degli atteggiamenti rispetto ai temi più scottanti della nostra attualità non sarebbe altro che una comodità di facciata, un politicamente corretto non sorretto da reali intenzioni di novità.
Il giusto mezzo
Qualche mese fa è andato in onda su Canale 5 lo show comico firmato da Pio D’Antini e Amedeo Grieco, in arte Pio e Amedeo, tristemente noto all’opinione pubblica per aver portato in prima serata atteggiamenti omofobi e razzisti travestendoli da comicità. Il caso specifico dello show di Pio e Amedeo ha messo in luce chiaramente la sottile differenza tra il fare satira, magari anche in modo dissacrante ma comunque in grado di strappare un sorriso senza essere per forza politicamente corretti, e il trattare certe tematiche sociali con superficialità imbarazzante, ottenendo soltanto indignazione.
Serve ancora il politically correct?
In una società nella quale il seme dell’uguaglianza è forse stato piantato ma fatica ancora a dare i suoi frutti molti sarebbero tentati di liquidare il dibattito sul politicamente corretto con un semplice «tutto fa brodo», ricordando che è meglio essere rispettosi una volta in più che una volta in meno. Non c’è dubbio che il traguardo dell’inclusione sia ancora piuttosto lontano, ma l’attivismo sociale ha le sue debite sedi e i suoi linguaggi particolari. Mescolare spot pubblicitari e temi socialmente controversi può sortire l’effetto di polarizzare l’audience invece che sviluppare un dibattito costruttivo sull’argomento. D’altro canto è indubbio che la televisione, la satira, il giornalismo anche online siano al giorno d’oggi tra i mezzi più potenti per stabilire un contatto con la popolazione e per variarne le inclinazioni.
Portare una persona disabile sullo schermo di una serie tv o garantire presenza scenica anche a persone di diversa etnia non può che avere un effetto positivo nella rappresentazione e nella percezione di queste categorie. Ma trasformare ogni occasione per fare attivismo sociale può sortire l’effetto opposto. La sfida è proprio quella di trovare un giusto equilibrio, rintracciando i metodi e i luoghi più consoni a certe tematiche e resistendo alla tentazione di confondere il vero attivismo con belle parole di facciata.