Fino ad un paio di anni fa l’espressione comunemente utilizzata da coloro che volevano girare il mondo era “mi prendo un anno sabbatico”. Oggi grazie all’era del web 2.0 non è più necessario l’anno sabbatico, si può conciliare il lavoro con il proprio stile di vita, e se il proprio stile di vita richiede di spostarsi in continuazione dall’Indonesia all’Argentina, passando per il Kenya, oggi possiamo affermare che il sogno è diventato realtà, grazie a loro: i nomadi digitali.
Ribellione o voglia di libertà
Questo nuovo “modus vivendi” nasce dall’esigenza di mettere in discussione le regole dettate dalla società moderna, secondo cui è cosa buona e giusta, ottenere un lavoro rispettabile e passare il resto dei propri giorni dietro una scrivania dal lunedì al venerdì seguendo degli orari prestabiliti, inseguendo il mito della carriera, della posizione sociale, dell’arricchirsi anche a scapito del proprio tempo e della propria libertà. Chi ha deciso di intraprendere la carriera di nomade digitale, non la pensa esattamente così: vuole aprirsi a nuove opportunità ed estendere i propri orizzonti intellettuali, personali e professionali attraverso l’incontro con nuove culture, persone e luoghi differenti.
La presa di posizione di scardinare i principi dello “status quo”, al contrario di ciò che si può pensare non è strettamente legato alle nuove generazioni, ma ci sono delle persone di qualsiasi età e nazionalità che sono nate con l’erba che cresce sotto i piedi, ovvero non riescono a stare ferme nello stesso posto, muoiono dalla voglia di esplorare, riempire i propri occhi di bellezza, di novità. Pensano che il mondo sia un posto troppo grande per restare fermi nello stesso luogo per troppo tempo.
Indubbiamente le tecnologie digitali diventano un importante strumento grazie al quale è possibile abbattere i confini e lavorare da remoto senza vincoli di spazio, scegliendo il luogo in cui si vuole vivere in base al proprio ciclo di vita e in base alle proprie esigenze del momento. Questo cambiamento culturale prodotto anche dai nuovi media e alla condivisione delle informazioni sta portando alla condivisione dei beni piuttosto che al loro possesso, favorendo un nuovo approccio alla sharing economy, in cui non è più considerato necessario avere la proprietà di un bene materiale ma poterlo utilizzare quando serve.
Nomadi digitali e smart working
Per nomadi digitali, fino a inizio 2020, si intendevano prevalentemente lavoratori freelance in grado di svolgere il proprio lavoro totalmente da remoto come per esempio: programmatori, copywriter, traduttori e social media manager. Con l’avvento del coronavirus qualcosa è cambiato, infatti ci siamo trovati a dover improvvisamente parlare di smart working, un termine sconosciuto ai più ma che è stato largamente enfatizzato durante tutto il corso della pandemia.
Ma è la stessa cosa? Effettivamente no, nel secondo caso infatti ci troviamo di fronte ad un’alternativa trovata dalle aziende per fronteggiare la pandemia. Coloro che svolgono mansioni da ufficio, infatti, potrebbero non essere interessati al nomadismo digitale. Ad oggi gli studi svolti dopo i mesi di lockdown hanno riscontrato che il 24% della popolazione italiana potrebbe tranquillamente lavorare da remoto. Ma non necessariamente viaggiando.
La caccia ai nomadi digitali
Di recente, molti paesi, hanno iniziato a proporre offerte vantaggiose in termini di tassazione per indurre i nomadi digitali a trasferirsi sulle loro spiagge o “Nomad Village”.
La Croazia per rilanciare il turismo propone un visto esentasse della durata di un anno per coloro che lavorano da remoto per un paese al di fuori dell’UE. La Spagna ha introdotto il “Residencia no lucrativa”, un visto, della durata di un anno per chi può dimostrare di avere un reddito annuale. L’Estonia ha un programma di “e-Residency” dal 2014 che ha permesso allo stato di guadagnare 41 milioni di euro ed è stato uno dei primi paesi al mondo ad estendere il permesso di soggiorno a dipendenti di aziende straniere.
A Madeira esiste un villaggio turistico che fornisce spazi gratuiti e internet illimitato dalle 8 alle 22 con l’unica clausola di restare almeno un mese. A Dubai si può entrare con un visto turistico e poi passare al programma annuale per vivere a tutti gli effetti come residenti. L’Islanda essendo fortemente convinta dell’arricchimento culturale portato dai telelavoratori ha varato un programma: “work in Iceland” che permette il soggiorno per sei mesi a chiunque possa dimostrare di lavorare per un azienda straniera. In Grecia è prevista una tassazione del 50% sui profitti per i sette anni successivi.
Di recente anche isole caraibiche hanno messo a disposizione un visto per i nomadi digitali: oggi lavorare dalle Barbados o dalle Bahamas non è più un sogno. Si può lavorare e godersi il tempo libero su una delle spiagge paradisiache che questi luoghi hanno da offrire.
Quindi resta solo aspettare e vedere come continuerà ad evolversi il mondo del lavoro in un futuro prossimo e quali altre modifiche allo status quo verranno apportate dai cosiddetti “lavoratori ribelli”.