Nihon Whisky Lounge, San Francisco, inizio 2014. Davanti a un piatto di sushi sta per concretizzarsi uno degli affari più onerosi della storia dell’high tech, l’acquisto di WhatsApp da parte di Facebook. A raccontare i dettagli di quella storica cena è la giornalista di “Bloomberg” Sarah Frier, in un saggio bestseller negli USA (ma ancora inedito in Italia) dal titolo No filter.
I protagonisti attorno al tavolo sono: Mark Zuckerberg, proprietario e fondatore di Facebook, allora trentenne; Kevin Systrom, fondatore di Instagram; Jan Koum, fondatore di WhatsApp. Zuckerberg ha studiato ad Harvard, Systrom a Stanford, mentre Koum ha una storia, e conseguentemente una forma mentis, un po’ diverse. Innanzitutto è di qualche anno più anziano degli altri due; inoltre non è nato in America, ma ci è arrivato a 16 anni in compagnia della madre, trasferendosi dalla sua città originaria, Kiev. Ha lavorato per qualche anno per una ditta di pulizie, guadagnandosi da vivere dopo la morte prematura della madre; poi è entrato a Yahoo, e qualche anno dopo, nel 2009, ha fondato WhatsApp.
Da Kiev alla Silicon Valley
L’esperienza del regime sovietico ha spinto Koum a desiderare qualcosa di ben diverso per la sua start-up: in luogo del controllo spionistico esige la riservatezza delle comunicazioni (da cui la crittografia dei messaggi), aborre la propaganda, specie quella occulta (da cui la decisione di non inserire annunci pubblicitari), non vuole che i dati sensibili dei suoi utenti finiscano in “mani sbagliate”.
“Zuck” ha deciso di portarsi con sé Systrom per indebolire la resistenza di Koum: Systrom lo inviterà a compiere il suo stesso passo (un paio di anni prima Instagram era passata a Facebook per la cifra record di 1 miliardo), ergendosi a “prova vivente” di come i rapporti con l’acquirente possano rimanere saldi e amichevoli negli anni, e come l’indipendenza decisionale del fondatore sia preservata (anche se poco dopo lo stesso Systrom presenterà le proprie dimissioni…). L’opera di persuasione dà il suo frutto: pochi mesi dopo WhatsApp verrà venduta al gruppo Facebook. La cifra? Nientepopodimeno che 19 miliardi di dollari.
Azzardo o calcolo?
Quando sul piatto vengono poste cifre astronomiche come questa, le possibili motivazioni sono due: la sincera convinzione che l’investimento potrà essere ripianato in un tempo ragionevole, o la cinica volontà di “togliere di mezzo”, di estromettere dal mercato un concorrente potenzialmente pericoloso. La seconda, pur legittima nella giungla della finanza, è certamente discutibile, giuridicamente (per la vocazione monopolistica di cui è indice) e moralmente. D’altra parte, l’idea che il comportamento imprenditoriale di Zuckerberg sia da tempo “moralmente riprovevole” non è un parto di Frier, ma è opinione diffusa presso i suoi dipendenti. Lo dimostra la mole di interviste, chat riservate, documenti che passano sotto il nome di Facebook Papers.
I Facebook Papers
Tra le testate che vi hanno avuto accesso, anche «The Atlantic»; una giornalista del prestigioso portale, Adrianne LaFrance, in un recente articolo diffuso in traduzione sulle colonne del «Foglio», ha reso pubblica parte del loro contenuto. Il focus è inevitabilmente improntato sugli eventi del 6 gennaio 2021, con l’assalto a Capitol Hill in occasione della cerimonia di ratifica della vittoria di Joe Biden alle elezioni presidenziali 2020. Come rivelato anche da Frances Haugen, whistleblower ed ex ingegnere di Facebook, nella sua recente audizione al Congresso, Facebook avrebbe potuto fare di più, per prevenire il “tentato colpo di stato” in cui sono morte cinque persone (senza contare i quattro poliziotti suicidatisi nei mesi successivi).
Scrive LaFrance: “Ciò che emerge dalla lettura dei documenti di Facebook, è che il social network non è uno strumento passivo, ma un catalizzatore”. Ancora: “Facebook ha reso gli sforzi di coordinamento ancora più visibili su scala globale”. I punti su cui insiste la giornalista americana sono soprattutto tre: l’esistenza di possibili strategie utili a evitare la circolazione di disinformazione e dei messaggi d’odio, il ruolo di Zuckerberg nell’affossamento di tali soluzioni, e il crescente malcontento dei dipendenti dell’azienda a proposito dell’operato del proprio datore di lavoro.
Il ruolo di Zuck
Come rivelato da Haugen, “i dipendenti di Facebook avevano raccomandato di modificare l’algoritmo […]”; fino a quel momento, esso “trattava qualsiasi engagement nella tua rete come il segnale che valesse la pena condividere qualcosa”. L’obiettivo della proposta del team interno Integrity consisteva nel “costruire interruttori automatici per rallentare questa forma di condivisione”. Tuttavia, Zuckerberg e i suoi più stretti collaboratori la soffocarono sul nascere, perché essa avrebbe “limitato interazioni sociali significative”.
Come fanno notare altri dipendenti nelle chat di lavoro, però, una soluzione del genere avrebbe evitato un fenomeno come quello del gruppo “Stop the Steal!”, che annoverava molti dei protagonisti della riot andata in scena nel giorno dell’Epifania, e che in appena un giorno raggiunse 333000 partecipanti. Facebook avrebbe provvisto a chiuderlo, ma senza la necessaria tempestività. Il problema di fondo, però, fa notare LaFrance, è che “le persone postano su Facebook nuovo materiale meno frequentemente, e i suoi utenti sono in media più anziani di quelli di altre piattaforme social […] Questa crisi spiega perché Facebook è così dipendente dall’infrastruttura dei gruppi.”
Risposte
Ma una questione è rimasta in sospeso: a muovere Zuckerberg ad acquistare WhatsApp per 19 miliardi è stata la speranza di poterne guadagnare molti di più, o un mero calcolo opportunistico indirizzato alla soppressione della concorrenza? I dati fanno propendere per la seconda risposta. I due principali fronti di investimento che coinvolgono WhatsApp, e che Facebook intende sviluppare nel medio-lungo periodo, sono l’integrazione dell’e-commerce e il servizio Business.
Il primo consentirà di completare le transazioni attraverso l’utilizzo combinato delle applicazioni del gruppo Facebook; il secondo consente già oggi a diverse aziende e pubbliche amministrazioni un contatto diretto coi propri utenti: in Italia se ne servono Enel, Vodafone, Tim e Poste, solo per fare alcuni esempi. Ma il dato combinato delle rendite di questi due asset non si avvicina nemmeno così tanto, allo stato attuale, ai 2 miliardi. Il che significa che Facebook non solo non sta rientrando nell’investimento dei 19 miliardi spesi per l’acquisto di WhatsApp, ma non intende nemmeno approntare strategie per farlo.
Facebook-Meta: doppio nome o doppia morale?
Facebook sta attraversando una crisi che, come risaputo, ha indotto il suo fondatore a cambiare il nome della controllante in Meta, e soprattutto ad annunciare progetti avveniristici come quello del metaverso, un universo futuristico in cui si elide il confine fra realtà e finzione. Il caso WhatsApp è un esempio di una strategia imprenditoriale che non sta dando i suoi frutti, quello di Capitol Hill un punto di rottura da cui l’immagine dell’azienda è uscita decisamente macchiata. Facebook-Meta deve affrontare problemi ben più concreti, ma se è vero, come scrive LaFrance, che la maggior parte di chi ci lavora considera il fondatore “moralmente fallito”, allora il rischio è che il nemico più subdolo di “Zuck” finisca proprio per essere l’etica.
FONTI
Sarah Frier, “No filter: The inside story of Instagram”, Simon and Schuster, 2020