La storia dell’omicidio Calabresi è senz’altro uno dei gialli più intricati e una delle pagine più scure della storia contemporanea nostrana; come d’altronde sono oscuri e intricati gli antefatti che hanno portato a questo delitto e le vicende che a esso sono seguite. Nel 1988 arrivò la sentenza definitiva, il 17 marzo è ricorso il cinquantesimo anniversario della sua morte, il 29 giugno appena passato la Francia ha negato l’estradizione di Pietrostefani (condannato, dalla giustizia italiana, per l’omicidio di Calabresi) e, nonostante tutto il tempo trascorso, non si sono ancora spente le polemiche ed estinti i dubbi riguardo all’omicidio e al processo.
L’antefatto
Pinelli e piazza Fontana
Durante la notte fra il 15 e il 16 dicembre del 1969 cadde il corpo (forse vivo, forse inanime) dell’anarchico Giuseppe Pinelli dal quarto piano del palazzo della questura di via Fatebenefratelli, a Milano. Egli era stato trattenuto negli uffici della questura, oltre le quarantott’ore previste dalla legge, in quanto sospettato della strage di piazza Fontana. Secondo la versione fornita dalla questura Pinelli si sarebbe gettato dalla finestra e, suicidandosi, avrebbe urlato “è la fine dell’anarchia!“. Alla prima versione ufficiale ne seguirono altre fra loro incongruenti, rimangono tutt’ora molti dubbi sul cosiddetto suicidio di Pinelli, l’unica certezze è che, nonostante i sospetti e le incoerenze nessun membro della questura fu mai indagato per omicidio.
Pinelli risultò poi innocente e, in seguito, l’attentato di piazza Fontana si rivelò essere di matrice fascista, organizzato da un gruppo dell’estrema destra extra-parlamentare. La sentenza, arrivata solo nel 2005, attribuiva l’efferata strage ad “un gruppo eversivo costituito a Padova nell’alveo di Ordine nuovo” capitanati “da Franco Freda e Giovanni Ventura”; nessuno dei colpevoli venne però condannato, in quanto (secondo il principio giuridico ne bis idem) essendo già stati precedentemente assolti non erano ulteriormente perseguibili dalla legge.
La rabbia per Pinelli e la diffamazione nei confronti di Calabresi
La morte dell’innocente Pinelli scatenò polemiche da parte di molti fra artisti, intellettuali e militanti; fra le tante voci si differenziò, in negativo, il quotidiano «Lotta Continua», protagonista di una campagna di diffamazione nei confronti del commissario Calabresi che, stando alle testimonianze, non era nella stanza al momento del tragico accaduto. Significativo l’articolo del 6 giugno 1970:
Questo processo lo si deve fare, e questo marine dalla finestra facile dovrà rispondere di tutto. Gli siamo alle costole ormai ed è inutile che si dibatta “come un bufalo inferocito che corre per i quattro angoli della foresta in fiamme”. […]
“Archiviano Pinelli, ammazziamo Calabresi”: è scritto sui muri di Milano, è scritto anche sulla caserma S. Ambrogio, e noi, solo per dovere di cronaca, come si dice, riportiamo la cosa. A prima vista, a noi superficiali lettori di scritte murali, questo sembrerebbe un incitamento all’omicidio di funzionario di P.S. Quello che infastidisce è che, se qualcuno segue il suggerimento, si rischia di vedere saltare, per morte del querelante, il processo Calabresi-Lotta Continua, e la cosa in effetti ci dispiacerebbe un po’ […]
A questo punto qualcuno potrebbe esigere la denuncia di Calabresi e Guida per “falso ideologico in atto pubblico”; noi che, più modestamente, di questi nemici del popolo vogliamo la morte, ci accontentiamo di acquisire anche questo elemento…
In seguito alcuni membri di «Lotta Continua», fra cui Sofri e Mughini, presero le distanze da questo articolo e dalla campagna d’odio portata avanti contro Calabresi.
L’omicidio e un lungo processo
A Milano in via Francesco Cherubini, una traversa di Corso Vercelli, al numero 6, il 17 maggio 1972, alle ore 9:15, con una rivoltella Smith & Wesson calibro 38 (e forse con l’ausilio di un altra pistola), con un colpo alla testa e uno alla schiena, veniva ucciso il commissario Luigi Calabresi.
Ieri il razzista Wallace, oggi l’omicida Calabresi. La violenza si rivolge contro i nemici del proletariato, contro gli uomini che della violenza più spregiudicata hanno fatto la loro pratica quotidiana di vita al servizio del potere. E fin troppo facile prevedere che si scateni era tutta la rabbia repressiva dello Stato contro le organizzazioni rivoluzionarie e i loro militanti. Ma questa non può essere una ragione per farci tacere oggi quella verità che abbiamo sempre detto ad alta voce: che Calabresi era un assassino, e che ogni discorso sulla “spirale della Violenza, da qualunque parte provenga” è un discorso ignobile e vigliacco, utile solo a sostenere la violenza criminale di chi vive sfruttando e opprimendo. […] Ma non possiamo nemmeno, ieri per Wallace, oggi per Calabresi, accettare un giudizio opportunista che fa di ogni azione diretta il risultato della provocazione e dell’infiltrazione del nemico di classe. l’omicidio politico non è certo l’arma decisiva per l’emancipazione delle masse dal dominio capitalista, così come l’azione armata clandestina non è certo la forma decisiva della lotta di classe nella fase che noi attraversiamo. Ma queste considerazioni non possono assolutamente indurci a deplorare l’uccisione di Calabresi, un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia.
Le indagini furono lunghe e inconcludenti, fra i sospettati vi furono: gli anarchici vicini a Pinelli, i neofascisti e alcuni gruppi della sinistra extra-parlamentare (Lotta Continua, Potere Operaio, Autonomia Operaia, Gruppi d’Azione Partigiana). Per parsimonia sorvoleremo sulle prime indagini, dedicandoci piuttosto al lungo iter giudiziario iniziato nell’ottantotto.
La confessione di Marino
Nel 1988, a 16 anni dall’omicidio il caso si riapre grazie alla testimonianza di Leonardo Marino, ex militante di Lotta Continua. Questi si affermò di essere stato, insieme a Ovidio Bompressi, esecutore materiale dell’omicidio e che quest’ultimo fosse stato ordinato da Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri. In base solamente alle dichiarazioni di Marino i quattro vennero condannati: Bompressi, Sofri e Pietrostefani a ventidue anni, Marino (in quanto collaboratore di giustizia) a undici anni, di cui scontò solo alcuni mesi di arresto preventivo e alcuni anni di libertà condizionata. Sentenza confermata da un secondo processo (nel ’91), annullata dalla cassazione (nel ’92), ribaltata con una sentenza di innocenza (nel 93). Peccato che, quella del ’93, fosse una cosiddetta “sentenza suicida“, dunque il processo venne ripreso è venne confermata (nel ’95) la prima sentenza di colpevolezza.
Sulla veridicità della testimonianza di Marino molti nutrirono sospetti fin da subito; fra gli altri vi fu Dario Fo che scrisse e mise in scena la commedia “Marino libero! Marino è innocente!“, dove metteva in luce le “centoventi bugie” di Marino. Fra le incoerenze della testimonianza di Marino citiamo: l’errore nell’identificare il colore dell’auto (disse che era beige quando in realtà era blu), nell’indicare la via di fuga utilizzata e nel descrivere l’appartamento utilizzato come base operativa del delitto, la descrizione infatti faceva riferimento all’appartamento ristrutturato e non alle sue condizioni all’epoca dei fatti (vale a dire prima della ristrutturazione). A ciò si aggiunge la gravosa condizione economica di Marino, che fra l’altro aveva chiesto e ottenuto dei prestiti da Sofri, e che migliorò sospettosamente dopo la sua confessione.
Dunque non stupisce il numero di personaggi che si sono schierati in difesa dei tre, in particolare, di Sofri fra i tanti citiamo: Giuliano Ferrara, Gad Lerner, Pietro Valpreda, Don Luigi Ciotti, Massimo D’Alema, Claudio Martelli, Walter Veltroni, Piero Fassino, Ferdinando Imposimato, Bobo Craxi, l’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, Marco Pannella, , Adriano Celentano, Giorgio Gaber, Jovanotti, Stefano Benni, Pino Cacucci, Leonardo Sciascia, Gianni Vattimo, Andrea Zanzotto, Luigi Ferrajoli, gli Almamegretta, Franco Battiato, Lucio Dalla, Fabrizio De André, Diego Abatantuono, Antonio Albanese,
Dall’ottantotto a oggi
Le tre grazie
Per ben tre volte si è parlato di concedere la grazia, tramite il potere del presidente della repubblica italiana, ai tra condannati. La prima volta ne venne fatta richiesta ad Oscar Luigi Scalfaro nel 1997 che però rifiutò per i seguenti motivi:
Qualsiasi provvedimento di grazia destinato a più persone sulla base di criteri predeterminati, costituirebbe di fatto un indulto improprio, invadendo illecitamente la competenza che la costituzione riserva al parlamento. […] La grazia, qualora applicata a breve distanza dalla sentenza definitiva di condanna, assumerebbe oggettivamente il significato di una valutazione di merito opposta a quella del magistrato, configurando un ulteriore grado di giudizio che non esiste nell’ordinamento e determinando un evidente pericolo di conflitto di fatto tra poteri. […] Dunque la via per superare queste dolorose e sofferte vicende della nostra storia può essere trovata, ma certo richiede una visione unitaria di quella realtà, una volontà politica determinata e capace di raccogliere il consenso indispensabile.
Il secondo tentativo venne fatto quando a guidare la repubblica italiana era Carlo Azeglio Ciampi, che aveva manifestato la volontà di concedere ai tre la grazia. A questo tentativo si oppose però l’allora Ministro della Giustizia Roberto Castelli e il magistrato competente; la situazione venne infine sottoposta alla Corte Costituzionale che diede ragione al Presidente della Repubblica. Nonostante ciò la grazia non fu concessa, poiché la sentenza venne emessa tre giorni dopo la fine del mandato di Ciampi. Fu infine Napolitano che nel 2006 concesse la grazia per motivi umanitari a Bompressi, che dal 2003 si trovava in detenzione domiciliare per dei problemi di salute, unico dei tre ad averne fatta richiesta.
Il caso Sofri, Pietrostefani e l’espatrio
Dei tre processati quello su cui i media hanno rivolto maggiormente l’attenzione è stato senza dubbio Sofri, basti pensare che il processo è passato alla storia come “Il caso Sofri“. Ciò è dovuto in primis all’influenza culturale e alla notorietà di quest’ultimo, in secondo luogo per l’attività da giornalista e opinionista ( anche durante la detenzione in carcere continuò a scrivere sul «Foglio»). Sofri ammise la propria responsabilità morale rispetto all’omicidio (in riferimento alla campagna di diffamazione nei confronti di Calabresi), pur negando sempre ogni coinvolgimento concreto. Fra i tre, fu l’unico a scontare regolarmente la propria pena (fra 1997 e il 2012), prima tramite detenzione e poi agli arresti domiciliari.
Pietrostefani invece scontò solamente due anni della condanna (fra il 97′ e il 99) poi nel 200
La versione delle vedove
Quest’anno si è parlato molto della vicenda Calabresi, principalmente per due motivi: l’anniversario della sua morte e il mancato espatrio di Pietrostefani. L’anniversario è ricorso il 17 maggio; fra le tante parole spese a commemorare il commissario Calabresi le più toccanti sono senza dubbio quelle della vedova Gemma Capra:
Al mattino di questo giorno guardo l’ora, chiudo gli occhi e dico: ‘Ecco, adesso’. È venuto da me, aveva la sua giacca nera, i pantaloni grigi, ma prima di uscire si era cambiato la cravatta. Ne aveva una rosa di seta, ne ha messa una di lana bianca. E mi ha chiesto: ‘Come sto, così?’ Io gli ho risposto: ‘Bene, ma stavi bene anche prima’. E lui mi ha detto: ‘Sì, ma questo è il simbolo della mia purezza‘. E queste sono le ultime parole che mi ha detto. In quel momento sono rimasta spiazzata, ma non ho fatto a tempo a chiedergli perché mi diceva quello o che senso aveva. Lui era eternamente in ritardo ed era già uscito. Dopo ho capito: era il suo testamento. Come se avesse voluto dirmi: continueranno a calunniarmi, ma sappi che io sono puro e sono innocente
Riguardo il mancato espatrio di Pietrostefani l’opinione pubblica si è divisa fra chi ha reputato sbagliata la decisione della magistratura francese (come Mario Calabresi, figlio di Luigi) e chi invece l’ha difesa, o perché innocentista fin dall’inizio o perché, come ha scritto Adriano Sofri sul «Foglio», “Che cosa ve ne fate dell’estradizione di Pietrostefani e gli altri?“.
In clausola a questo articolo è bene riportare un fatto importante e carico di significato: l’incontro fra Licia Rognini, vedova dell’anarchico Pinelli, e Gemma Capra, vedova del commissario Calabresi, avvenuto nel 2009 al Quirinale per volontà dell’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. “Un passo verso la giustizia e la libertà” commentò Rognini in quell’occasione. “Dapprima viene il dolore” disse Capra “ma se si sa attendere, nei tempi lunghi, la gioia e il riconoscimento arrivano”.
Fonti: