Tra Russia e Ucraina il conflitto armato tempesta da mesi. Il fronte ucraino stride tra la richiesta disperata di nuovi armamenti e il sogno di un riconoscimento tra le fila dell’Unione Europea, mentre Mosca avanza, letale. Nel polverone alzato dai carroarmati e tra le macerie degli edifici distrutti dalle bombe si delinea una luce, una speranza, un pacere moderato che possa mediare tra i due litiganti: Erdogan. La Turchia si è posta fin dall’inizio del conflitto nel ruolo di tramite tra gli interessi di Russia e Ucraina, attirando l’attenzione e in alcuni casi gli elogi della politica europea. Ma gli interessi del turco Erdogan vanno ben oltre i candidi intenti di pace: in gioco c’è il peso internazionale di Ankara e la possibilità di intervenire liberamente su quella spina nel fianco del sogno nazionalista turco che è l’esperimento democratico nel Rojava.
Nascita e sviluppo di un ideale
Il Rojava è una piccola regione a nord-est della Siria, che dal 2014 si è costituita come un’amministrazione autonoma de facto, retta da un sistema politico rivoluzionario detto confederalismo democratico. L’esperienza del Rojava prende le forme dalla teorizzazione del filosofo novecentesco Murray Bookchin e dalla rielaborazione che dei suoi scritti operò Abdullah Ocalan, leader del partito dei lavoratori in Kurdistan. La regione siriana è infatti considerata dai curdi uno dei quattro cantoni del loro Stato fantasma, diviso tra Turchia, Armenia, Iraq e, appunto, Siria.
Il primo contatto tra Bookchin e Ocalan si svolse tramite la carta dei libri del filosofo statunitense, nella semioscurità di una cella nell’isola-prigione di İmralı, di cui dal 2002 Ocalan è unico detenuto. Ocalan divora le pagine di Bookchin e le trasforma in un progetto politico strutturato e con una sua costituzione pratica. Le sue idee riescono ad evadere dall’isola che gli fa da carcere, circolano, si diffondono, si radicano, nutrono il sogno democratico e ambientalista di una parte della popolazione curda. Il risultato è una piccola fetta di democrazia in mezzo ai regimi del Medio-Oriente, destabilizzatrice di ideologie secolari e scomodo modello di progressismo.
Rispetto per l’ambiente, femminismo, pluralismo etno-culturale, secolarismo e democrazia. Questi i pilastri ideologici che sostengono i principali organi di Governo nel Rojava: l’Assemblea legislativa, il Consiglio Esecutivo, l’Alta Commissione per le elezioni, la Suprema Corte Costituzionale, e i Consigli municipali e provinciali. Attualmente il Rojava è diviso in 7 regioni distinte, tutte con un proprio consiglio autonomo eletto a suffragio universale.
Ombre e dubbi sul Rojava
Descritto in questi termini sembrerebbe improbabile che l’Occidente, da anni in lotta contro il fondamentalismo religioso dello Stato Islamico, rifiuti di appoggiare il tentativo democratico di una regione che si trova proprio al centro delle mire dell’Isis. E in effetti non sono poche le voci che dall’Europa e non solo hanno lodato il Rojava: Raymond Joliffe, esponente della camera dei Lord inglese, ha affermato che quello che i curdi stanno tentando di portare avanti è “un esperimento unico che merita di avere successo“; il professore olandese Jan Best de Vries ha donato diecimila libri agli studenti di Rojava dopo aver visitato la regione nel 2014; per David Graeber, uno dei fondatori del movimento Occupy Wall Street, “la regione autonoma di Rojava, così come è oggi, è uno dei pochi lati positivi che emerge dalla tragedia della rivoluzione siriana“.
Eppure, scorrendo l’elenco aggiornato delle organizzazioni terroristiche nel mondo, approvato dal Consiglio Europeo, si troverà il PKK (il partito di Ocalan) nella stessa categorizzazione in cui figura anche l’Isis. Inoltre, pur esistendo dal 2014, il Rojava non ha ancora ottenuto il riconoscimento politico delle Nazioni Unite, della Nato e neppure dell’Unione Europea.
Perché?
Il PKK è entrato nella lista nera delle organizzazioni terroristiche a causa del sequestro di alcuni occidentali e dei suoi metodi di guerriglia che includono l’uso di kamikaze per colpire militari e civili contro gli obiettivi turchi, messi in atto specie dopo la violenta repressione di Ankara verso il popolo curdo della regione. Nonostante nel corso degli ultimi dieci anni si siano contate molte voci all’interno degli ambienti europei affinché il PKK venga depennato dalla lista delle organizzazioni pericolose, la pressione degli Stati Uniti, che per primi nel 2002 hanno insistito perché il partito di Ocanal venisse annoverato tra i terroristi, rimane ancora troppo forte perché cambi qualcosa.
Un complesso scacchiere geopolitico
Nei giorni scorsi il presidente turco Erdogan ha chiarito i suoi intenti riguardo al nord della Siria: “Ripuliremo Tel Rifaat e Manbij“ ha affermato davanti ai membri del suo partito. Tel Rifaat e Manbij sono due città siriane al confine meridionale con la Turchia. La loro conquista significherebbe non solo dare continuità territoriale a quel lembo di Siria che Ankara ha messo nel mirino già da diversi anni, ma indebolirebbe l’unità geografica del Rojava, mettendo in forte pericolo la tenuta dell’esperimento democratico. Tutto questo sotto gli occhi della Russia, il cui benestare, viste le imponenti influenze di cui Mosca gode in Siria, è il primo passo verso la conquista definitiva della zona.
Per questo le intenzioni espansionistiche di Erdogan, che punta a stabilire una safe zone al confine siriano con ordinamento politico basato sulla legge islamica, sono state comunicate in primis al presidente russo Vladimir Putin. La telefonata ufficiale tra i due leader ha anche assunto un importante valore nella scacchiera politica internazionale, visti i toni con cui Erdogan si è implicitamente rivolto all’Occidente. “Vedremo chi sosterrà questa legittima operazione di sicurezza e chi si opporrà” ha detto il presidente turco prima di chiudere la chiamata con l’omologo russo. Le parole di Erdogan sembrano molto un sibilante avvertimento alla Nato, un modo per ricordare neanche troppo velatamente che la situazione geopolitica attuale gli permette di avere il coltello dalla parte del manico.
Il ruolo della Turchia nella Nato
In questo momento Ankara non solo offre il secondo esercito più corposo dell’Alleanza Atlantica, ma impedisce con il suo veto l’entrata nella Nato di Svezia e Finlandia, guarda caso accusate da Erdogan di spalleggiare i gruppi interni al Rojava. Davanti alle dimostrazioni di forza della Turchia, gli Stati Uniti hanno immediatamente reagito bollando l’operazione militare di Erdogan come qualcosa a cui opporsi con forza. Questo è infatti emerso dalle parole del segretario di Stato Antony Blinken durante una conferenza stampa congiunta con il numero uno della Nato, Stoltenberg.
Il rischio però è che l’interesse a mantenere in vita un seppur labile equilibrio politico internazionale prevalga sulla retorica americana della libera determinazione dei popoli e della protezione della democrazia. Quando i rapporti tra grandi Stati si scontrano – e di solito vincono – contro gli ideali di libertà il mondo si trasforma in una complicata partita di Risiko in cui è raro che vinca il migliore.
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