Un delitto misterioso si rivela uno strato alla volta, come una cipolla.
Prima il delitto, poi i personaggi e infine i loro segreti.
Non occorrono lunghi impermeabili, baffoni, pipe o lenti di ingrandimento per decifrare le linee guida di Only Murders in the Building, serie tv mistery ideata da Steve Martin e John Hoffman e approdata su Disney plus Star al tramonto del mese di agosto 2021. Eppure, dietro al grandioso riscontro critico che ne ha decretato il rinnovo – la seconda stagione è disponibile su piattaforma dal 28 giugno 2022- e alle spalle di una rigorosa schematicità narrativa dagli stilemi classici vi è il giocoso desiderio di rileggere in chiave contemporanea le sedimentate regole del genere giallo. Un genere di cui Only Murders in the Building riporta in auge la dimensione domestica, attraverso un inusitato trio sherlockiano (?) atto ad aggiornare e revisionare l’universo di solitudine del “detective”.
Il microcosmo Arconia
Arconia, rinomato palazzo dell’Upper West Side, New York. Primo vero protagonista e sede abitativa di tre appassionati di True Crime: l’attore ed ex detective televisivo Charles-Haden Savage (Steve Martin), il regista teatrale fallito Oliver Putnam (Martin Short) e la giovane e misteriosa Mabel Mora (Selena Gomez). A turbare (o sarebbe meglio dire scuotere?) il piatto trascinarsi della loro quotidianità è la morte del condomino Tim Kono (Julian Cihi); un apparente suicidio da manuale sul quale i tre pressoché sconosciuti inizieranno a indagare, con l’obiettivo di sviluppare un podcast che, indizio dopo indizio, possa condurli alla verità.
I segreti sono la parte divertente. Chi dice la verità? Chi mente? Che cosa nascondono?
Sullo sfondo New York, la città, solo superficialmente tratteggiata, un distante scorcio di metropoli. In primo piano New York, i suoi abitanti, un affresco delle personalità che la abitano, condensate nel delizioso microcosmo dell’Arconia; il caotico proliferare della Grande mela inquadrato nella struttura labirintica di dinamiche tipicamente condominiali. Riunioni, dissapori, rapporti di forza, sfratti, vicini “psicopatici”: una comunità orbitante attorno a tre Soli (o tre soli?), gli outsiders Charles, Oliver e Mabel, interpreti di un riuscito confronto generazionale dai toni fini, divertiti e teatralmente stereotipati; metonimie umane che del palazzo rappresentano la parte (esemplificativa) per il tutto.
Un giallo aggiornato
Sulle fondamenta di tale spinta centripeta e al netto di alcune ingenuità/forzature narrative, Only Murders in the Building costruisce un calibrato giallo di intrighi e intrecci, quasi un gioco di prestigio che getta fumo negli occhi dello spettatore ed estrae dal cilindro potenti cliffhanger ed estrose soluzioni visive (menzione d’onore merita l’idea dell’indagine sugli indiziati trasformata in un immaginario casting alla ricerca del sospettato più convincente per il ruolo). Un Martin&Hoffman’ show particolarmente abile nel destreggiarsi tra classico e moderno, capace di fare tesoro dei cardini della serialità (minuziosamente confezionata dalle azzeccate sonorità di Siddhartha khosla), intercettare le tendenze vococentriche dell’oggi (esplicitate nella scelta della dimensione podcast) e alternare con non sottovalutabile sapienza commedia e dramma – individuale e collettivo – yin e yang narrativi di un racconto fortemente equilibrato.
La solitudine dei detective
Riso e amarezza rappresentano i poli opposti ma complementari di un sottile segmento di congiunzione lungo il quale Only Murders in the Building dispiega una seconda e più profonda linea d’indagine. Chi è Tim Kono? Chi ha ucciso Tim Kono? Come e perché? Interrogativi centrali dell’intreccio eppure semplici esche a lambire la superficie di un metaforico specchio d’acqua volto a riflettere il fulcro reale di un quesito sotteso: chi sono Charles, Oliver e Mabel?
E ancora, cos’è realmente Only Murders in the Building? Non è forse rintracciabile, tra le pieghe comedy e mistery, una volontà di riflessione altra che investighi la solitudine, piaga umana e sociale? Flash-back animati, meta-narrazione, moltiplicarsi dei punti di vista e “shock” sensoriali – come nel corso dell’episodio “Il ragazzo del 6b” – rappresentano, in questo senso, gli innovativi ferri del mestiere con cui la serie scardina le pluri-masticate convenzioni giallesche, lasciando che Charles, Oliver e Mabel offrano un piacevole ribaltamento del paradigma del detective solitario.
Perchè siamo sinceri, a volte è più facile scoprire i segreti di qualcun altro, che non affrontare i propri.
Un rispettoso commiato degli Sherlock Holmes, delle Miss Marple, e degli Hercules Poirot di ieri, satiricamente sbeffeggiati dall’alter ego televisivo di Charles (Brazzos). E, al contempo, un fresco aggiornamento dello stile Hardy Boys: nell’amicizia fraterna – e non nella solitudine esasperata – risiedono le risposte a tutte le domande.