Canne al vento è il titolo più celebre di Grazia Deledda. Apprezzato sia dal pubblico che dalla critica, procurò alla scrittrice sarda il Premio Nobel per la Letteratura nel 1926 (e fu la prima e unica donna italiana a riceverlo).
Uscì dapprima a puntate sulla rivista L’Illustrazione italiana, dal 12 gennaio al 27 aprile 1913, e poi venne pubblicato in volume da Treves. Ambientato in Sardegna, racconta la fragilità dell’uomo, che vive un’esistenza in balia di una forza più grande di lui alla quale non può opporsi.
Il titolo
Siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la sorte è il vento.
Il titolo stesso del romanzo è emblematico rispetto al tema centrale, che come un filo rosso si snoda insieme alle vicende dei personaggi. È infatti il servo Efix a sciogliere il significato della metafora, che sottolinea la caducità dell’esistenza umana e il dolore che ne consegue. L’uomo è la canna, ancorata al terreno ma mossa costantemente dal vento, trascinata in ogni direzione: è la sorte che tutto piega al suo volere.
La metafora dell’uomo-canna
La metafora dell’uomo-canna non è nuova in letteratura, ma reimpiegata con sapienza e delicatezza da Grazia Deledda, oltre che in Canne al vento, anche in un altro suo romanzo del 1903, Elias Portolu. Deledda la ricava da una citazione del filosofo e matematico francese Blaise Pascal:
L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di chi lo uccide, dal momento che egli sa di morire e il vantaggio che l’universo ha su di lui; l’universo non sa nulla. Tutta la nostra dignità sta dunque nel pensiero. E’ in virtù di esso che dobbiamo elevarci, e non nello spazio e nella durata che non sapremmo riempire. Lavoriamo dunque a ben pensare: ecco il principio della morale.
Secondo Pascal, dunque, la grandezza dell’uomo sta nel suo pensiero, ossia nella consapevolezza del carattere limitato della natura umana e allo stesso tempo nel rivendicare la propria grandezza rispetto alla sorte che può schiacciarla senza difficoltà.
Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
Il tema della fragilità e della precarietà umana rispetto alla sorte è protagonista anche di una delle poesie più celebri di Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (1831).
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Così si rivolge il pastore kirghiso alla luna. Il pastore è la personificazione del poeta, che interroga la luna sulla condizione umana e sul dolore esistenziale che la contraddistingue.
Il pastore poi fa un parallelismo: “Somiglia alla tua vita / la vita del pastore”. La ricorrenza del moto della luna e del tragitto del pastore fra i campi si sovrappongono ed egli lamenta l’inutilità della sua vita, fino a giungere alla conclusione che l’esistenza e l’interno universo siano privi di senso. La vita umana, infatti, non è altro che un susseguirsi affannoso di eventi che porta inevitabilmente alla morte. Questo avviene fin dall’inizio: già la stessa nascita, sostiene il pastore, è un motivo di sofferenza (nell’Ottocento, infatti, il tasso di mortalità per parto era altissimo).
Dimmi, o luna: a che valeal pastor la sua vita,
la vostra vita a voi?
Il pastore chiede alla luna quale sia il senso della sua vita e il senso dell’esistenza della luna stessa e di tutto il cosmo. Ma la luna non è mortale, e insieme agli altri astri prosegue con indifferenza i suoi movimenti perpetui, senza preoccuparsi delle domande piene di angoscia del pastore.
Nella quinta strofa, il pastore si rivolge al suo gregge, gli unici esseri viventi che lo accompagnano, e realizza che, a differenza sua, loro non percepiscono il tedio e il dolore che sente lui. Il pastore si rende così conto che il dolore è intrinseco all’esistenza umana e che fa dunque parte della vita stessa. Con il Canto notturno Leopardi giunge alla svolta e piena realizzazione del suo pessimismo: l’uomo non è fatto per essere felice, ma è destinato a un’infelicità universale.
Gli umili di Alessandro Manzoni
La stessa condizione di precarietà viene declinata, anche se in maniera diversa, da Alessandro Manzoni nel suo più celebre romanzo, I Promessi Sposi. I protagonisti della vicenda sono degli “umili”, “genti meccaniche e di piccolo affare”, come si legge nelle pagine dell’Anonimo. La scelta di Manzoni è assolutamente originale e rappresenta una svolta decisiva, perché ad essere rappresentati non sono nobili o borghesi, come invece era tipico del genere del romanzo, ma persone comuni, provenienti da una classe sociale inferiore. Inoltre questi personaggi non vengono né stilizzati in contesti arcadici idealizzati, né resi oggetto di satira in quanto rozzi villani: Manzoni sceglie invece di rappresentarli nella loro umanità e concretezza, spingendosi fino a porre Lucia come modello etico e morale. La scelta di Manzoni si inserisce bene nell’interesse romantico per le tradizioni popolari e nella sua profonda cultura cristiana, in particolare per quanto riguarda il tema evangelico dei poveri prediletti da Dio: tutti gli uomini sono uguali davanti a Dio, e le asprezze della vita devono essere superate con la fiducia nella Provvidenza e la carità verso il prossimo. In questo modo, la giustizia divina si realizzerà procurando loro la beatitudine nell’aldilà.
L’elemento fiabesco in Canne al vento
I fragili e disorientati personaggi di Grazia Deledda vivono chiusi nella loro terra, la Sardegna, ma hanno la consapevolezza che al di là del mare c’è un altro mondo, che cercano di inseguire. La Sardegna descritta in Canne al vento è quella rurale del primo Novecento, animata da un insieme di tradizioni (e superstizioni) popolari millenarie, apparentemente statica, ma sulla via di un progresso tecnologico che presto travolgerà tutta Italia. Inoltre Deledda riesce a raccontare di un ambiente diviso tra il reale e il fantastico, tra il giorno, scandito dalle attività umane e quotidiane e la notte, abitata dalle fate e dai folletti; due mondi separati, ma che si sfiorano continuamente:
La vita dell’uomo lavoratore era finita, ma cominciava la vita fantastica dei folletti, delle fate, degli spiriti erranti. I fantasmi degli antichi Baroni scendevano dalle rovine del castello sopra il paese di Galte, su, all’orizzonte a sinistra di Efix, e percorrevano le sponde del fiume alla caccia dei cinghiali e delle volpi.
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CREDITI
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