La Germania punta il dito contro l’Italia al tribunale Internazionale dell’Aja. Non si tratta di conti in sospeso o di problemi legati alla gestione dell’immigrazione, non è una questione di bilanci né di bravate politiche. Questa volta al centro delle polemiche c’è la memoria storica e il rischio della strumentalizzazione incaponita di una tragedia che giace nel passato di entrambi i paesi: l’occupazione nazista.
La questione giuridica
Nel 2014 la Corte Costituzionale italiana ha approvato una sentenza che sancisce la legittimità di reclami individuali contro Stati sovrani per crimini di guerra e contro l’Umanità. Secondo tale provvedimento, quindi, singoli cittadini italiani possono far partire contro uno Stato estero un procedimento amministrativo per reati avvenuti nel corso del passato, rivendicando il diritto ad un risarcimento per danni ricevuti e rimasti invendicati. Ovviamente il periodo sotto la lente inquisitoria della Corte Costituzionale non può che essere il biennio 1943-1945, l’occupazione nazista del nord Italia.
Dal 2014 sono almeno venticinque le cause intentate da cittadini italiani contro la Germania, quindici delle quali effettivamente approdate a una richiesta di risarcimento presso i tribunali tedeschi. Secondo Berlino però queste istanze sarebbero segno di una prevaricazione del diritto internazionale, che già nel 2012 si era pronunciato a favore dell’immunità giurisdizionale degli Stati, rendendo di fatto illegittime rivendicazioni come quelle che con una certa frequenza partono dai tribunali italiani verso la Corte tedesca.
La goccia che fa traboccare il vaso
Ci si potrebbe chiedere perché la Germania abbia aspettato fino ad ora per bloccare le numerose richieste che annualmente raggiungono i suoi tribunali. L’inedita urgenza nel contrapporsi alle denunce italiane nasce dal fatto che due delle istanze recentemente intentate prevedono l’esproprio di palazzine di proprietà dello Stato tedesco presso Roma. Il tribunale italiano avrebbe dovuto decidere entro il 25 maggio se battere all’asta o meno gli edifici, alcuni dei quali ospitano attività culturali, artistiche ed educative legate alla storia tedesca. Berlino è intervenuta appellandosi all’Aja prima che tale decisione potesse essere presa.
La Corte internazionale ha quindi applicato misure provvisorie per bloccare la messa all’asta delle proprietà, mentre è stato aperto un contenzioso che con ogni probabilità impiegherà anni a trovare una sua soluzione definitiva.
Chi ha ragione?
Prendendo in esame il pronunciamento sulla questione a cui era approdato il tribunale dell’Aja nel 2012, pochi dubbi sopravviverebbero a proposito della legittimità della posizione tedesca. Gli Stati sovrani godono dell’immunità giuridica e non possono essere soggetti alle rivendicazioni dei singoli individui. Molto diversa è la sentenza della Corte Costituzionale italiana, che nel 2014 ha definito l’immunità statale come non assoluta, aprendo alle denunce dei cittadini che rivendicavano il proprio diritto al risarcimento dopo gravi violazioni dei diritti umani nel corso della seconda guerra mondiale.
Berlino non ha dunque tutti i torti nell’affermare che l’Italia ha agito in consapevole violazione del diritto internazionale, pronunciandosi di fatto contro l’Aja. Ovviamente la questione è ben più estesa e complessa del “semplice” fatto giuridico, e va a intersecare questioni di etica e di gestione della memoria storica, di perdono e di vendetta.
È mai possibile negare le violenze tedesche, le deportazioni razziali, le esecuzioni sommarie, i massacri perpetrati dalla caduta del regime fascista alla fine della seconda guerra mondiale? Difficilmente. Neppure la Germania sembra potersi sottrarre a tali accuse, tuttalpiù rivendica il fatto che l’adeguato risarcimento per questi abusi sia stato operato nel contesto degli accordi post-bellici tra i due Stati e a livello internazionale e non accetta che la Corte italiana ritorni sull’argomento a distanza di decenni e senza appellarsi a un organo internazionale super-partes.
Perdono o vendetta?
Inutile dire che un risarcimento non colmerà il vuoto lasciato da un abuso, la deportazione o l’uccisione di una persona cara. Nessun tipo di vendetta, se così si possono chiamare le istanze dei cittadini italiani contro lo Stato tedesco, ristabilisce l’ordine precedente: togliere ad altri non permette di riacquisire uno status sottratto. Niente di nuovo, niente di più di una massima da cioccolatini o biscotti della fortuna. Ma sotto la banalità di questa filosofia si nasconde la complessità umana della rabbia e del rancore, della disperazione e del dolore, della memoria e dell’oblio. “Una piccola vendetta è più umana di nessuna vendetta” scrisse una volta Nietzsche in Così parlò Zarathustra, riassunto efficace di quanto talvolta possa essere difficile conciliare il ricordo delle proprie sciagure con il trascorrere indifferente del tempo.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale e delle disumanità che questa ha portato con sé, la filosofia, la letteratura e la morale hanno dovuto confrontarsi con la questione del perdono e della vendetta. Davanti al criticato buonismo del perdono incontaminato come unica modalità per sbarazzarsi del peso della storia a cui faceva appello Ricoeur, si staglia silenzioso e immobile il murales anonimo che recita “né oblio né perdono“, diventato simbolo della resistenza del popolo alle tabule rase della memoria.
Scommettiamo sulla memoria
In questa diatriba tra perdono e vendetta si inseriscono le voci autorevoli di molti sopravvissuti alle barbarie naziste, da Primo Levi a Liliana Segre. “Mi chiedono se ho perdonato. No, io non ho perdonato. Certe cose non ho avuto la forza di perdonarle. Ma io non odio”, così la senatrice a vita della Repubblica Italiana deportata ad Auschwitz a 13 anni si esprimeva nel Giorno della Memoria. Un messaggio simile perviene anche dall’inchiostro di Primo Levi, sia nelle pagine drammatiche di Se questo è un uomo, sia nei racconti scientifici de La tavola periodica.
Ecco che nel bivio incolmabile tra odio e perdono, risarcimento e oblio, si innesta una terza via. È la via della memoria, storica e personale, che può prendere la forma del rito, della commemorazione collettiva, del monumento o anche del silenzio consapevole. Un modo forse per allontanare lo spettro del passato, evitando di reiterare antichi dolori, ma conservando intatto il doveroso compito del ricordo.
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