Il desiderio di immortalità è connaturato all’uomo, e questo ha portato artisti e poeti a incastonare una parte di sé nel proprio lavoro, per far sì che non tutto fosse destinato a morire e che il proprio nome restasse ancorato nella memoria collettiva.
La poesia, in particolare, si pone questo scopo fin dalle origini: da questo desiderio di immortalità nasce infatti uno specifico tema letterario, la “poesia eternatrice”.
Omero e l’eroe greco
Le origini di questo tòpos letterario si possono rintracciare nell’antichità già nei poemi omerici. La volontà di consegnare il proprio nome ai posteri è l’obbiettivo che anima gli eroi dell’Iliade e dell’Odissea, da Elena di Troia ad Achille. L’eroe greco è spinto al raggiungimento del kleòs, ovvero l’onore, che si realizza pienamente dopo la morte dell’eroe stesso: Achille, infatti, accetta di vivere una vita breve ma intensa, consacrata al ricordo eterno.
La stessa Elena, la bellissima regina di Sparta, espone l’immortalità garantita dalla poesia nel sesto libro dell’Iliade, quando cerca di distogliere Ettore dal pensiero della guerra:
“Ma tu vieni qui, ora, siediti in questo seggio,
cognato, ché molti travagli intorno al cuore ti vennero
per colpa mia, della cagna, e per la follia d’Alessandro,
ai quali diede Zeus la mala sorte. E anche in futuro
noi saremo cantati fra gli uomini che verranno…”
[Traduzione di Rosa Calzecchi Onesti]
La fama eterna è, per gli eroi omerici, la giusta ricompensa per una vita breve e solcata dalla sofferenza.
Saffo e la lirica greca
Non solo i protagonisti dell’opera, ma anche l’autore stesso può desiderare l’eternità. Proseguendo nell’età arcaica sono diversi i poeti che auspicano la gloria letteraria e ostentano disprezzo per la morte e la vecchiaia.
Nel frammento 55 di Saffo, la più celebre poetessa lirica, si legge:
“Tu giacerai morta, né più alcuna memoria di te mai resterà in futuro: ché tu non hai parte delle rose della Pieria, ma anche nella casa di Ades vagherai oscura fra le ombre dei morti, sospesa in volo lungi da qui.”
[Traduzione di Franco Ferrari]
In questo frammento Saffo si sta rivolgendo una persona defunta, a noi sconosciuta, che non conoscerà mai le muse (le Pierie citate nel testo), ossia non avrà mai il conforto dell’immortalità garantito dalla parola poetica, cosa che invece, come dimostrerà la storia, spetterà a Saffo stessa.
Il liber di Catullo
L’invocazione alle muse perché la propria opera venga consegnata all’eternità passa dall’antichità greca a quella latina e trova uno splendido esempio nel carme d’apertura del liber di Catullo. Questi versi, dedicati a Cornelio Nepote, grande estimatore di poesia, fungono da proemio all’opera di Catullo e sono un po’ il manifesto della sua poetica: a Catullo non interessa la pesantezza della poesia epica, che si estende in migliaia di versi, ma la limpidezza di una poesia breve, sintetica e rifinita nei dettagli. Dai poemi epici però Catullo riprende la tipica invocazione alla musa, definita patrona virgo (per mimare il rapporto della clientela romana), perché i suoi carmi riescano ad attraversare i secoli.
“A chi dedicherò questo libretto tutto nuovo
e or ora levigato ai bordi con scabra pomice?
A te, Cornelio: infatti solevi attribuire
qualche valore a queste mie bazzecole,
già allora, quando tu solo fra gli Italici
osasti narrare la storia d’ogni tempo,
in tre volumi eruditi e,per Giove, laboriosi!
Accetta perciò il contenuto di questo libretto,
qualunque ne sia il valore. Ed esso, o vergine protettrice,
possa vivere perenne, ben oltre una sola generazione.”
[Traduzione di Luca Canali]
Orazio: non omnis moriar
Profondo conoscitore della poesia lirica greca, il poeta latino Orazio non manca di dimostrare la sua fiducia nel valore eternante dei suoi versi. Il terzo e ultimo libro delle Odi, infatti, si chiude con un componimento che risuona come un congedo e come sigillo di una fama imperitura.
“Ho innalzato un monumento più duraturo del bronzo
e più elevato della mole regale delle piramidi,
che non la pioggia corrosiva, non l’Aquilone impetuoso
potrebbe distruggere o l’innumerevole
serie degli anni e la fuga dei tempi.
Non tutto morirò e molta parte di me
eviterà Libitina: continuamente io crescerò
mantenuto in vita dalla lode dei posteri, finché il Pontefice
salirà il Campidoglio con la vergine silenziosa.
Si dirà che io, dove vorticoso rumoreggia l’Ofanto
e dove, povero d’acqua, Dauno regnò
su popoli agresti, da umile potente,
per primo ho condotto la poesia eolica
ai modi italici. Mantieni l’orgoglio
conquistato con i meriti e a me con l’alloro
delfico cingi benevola, o Melpomene, la chioma.”
Non omnis moriar, scrive Orazio. La poesia è un valore assoluto ed il poeta è investito di una missione sacra. Perciò, i suoi versi sono destinati a durare nei secoli, assicurando al poeta di non morire interamente.
Dei Sepolcri, Ugo Foscolo
L’apoteosi della poesia eternatrice si raggiunge però con Ugo Foscolo (Zante, 6 febbraio 1778 – Londra, 10 settembre 1827). La quarta e ultima sezione (vv. 213-295) del poemetto Dei Sepolcri è dedicata al valore eternante che ha la poesia e delle muse che la ispirano, facendosi vere e proprie custodi dei luoghi dei morti:
“Siedon custodi de’ sepolcri, e quando
il tempo con sue fredde ale vi spazza
fin le rovine, le Pimplèe fan lieti
di lor canto i deserti, e l’armonia
vince di mille secoli il silenzio”.
Per Foscolo, solo la bellezza dell’arte e della poesia è in grado di superare i contrasti umani e la sofferenza. La tomba è soggetta al deterioramento, al tempo, mentre la poesia riesce a varcare i secoli. La poesia, dunque, è lo strumento migliore per eternare ciò che è effimero, e garantisce una forma di memoria ancora più duratura della pietra.
In Memoria, Giuseppe Ungaretti
Il valore eternante della poesia non viene meno neanche nell’ambito contemporaneo. Nel componimento In Memoria di Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto, 8 febbraio 1888 – Milano, 1º giugno 1970), emerge nuovamente il tema della funzione eternatrice della poesia: scrive del suicidio dell’amico Moammed Sceab, spinto da una solitudine esistenziale e da un dolore irrimediabile. Ungaretti affida così il suo ricordo alla poesia e così la sua morte viene trasfigurata in una delle epifanie istantanee della poesia ungarettiana, divenendo tutt’altro che definitiva.
“Si chiamava
Moammed Sceab
Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nome
[…]
Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera
E forse io solo
so ancora
che visse”.