Era il 2 giugno del 1946 quando gli italiani furono chiamati a decidere se mantenere la monarchia o introdurre la repubblica. Questa data fondante della storia del nostro paese venne definita da Pietro Calamandrei, politico e fondatore del Partito d’Azione, come “il miracolo della ragione” per il quale “una Repubblica è stata proclamata per libera scelta di popolo mentre il re era ancora sul trono“. Oggi, a pochi giorni di distanza dal settantaseiesimo anniversario di quel giorno, ci viene richiesto di prendere un’altra decisione.
Uno strumento di democrazia diretta
Un modo interessante per studiare la storia politica del nostro paese è prendere in analisi i referendum che si sono tenuti nel corso della storia repubblicana. Si tratta di un punto di vista insolito, ma che testimonia quelle che, di anno in anno, di decennio in decennio, sono state le lotte e le priorità della nostra classe politica. Nel 1946, dopo vent’anni di regime fascista e di libertà soffocata, l’ingresso nella storia repubblicana – e finalmente democratica – è sancito proprio da un referendum. Allo stesso modo le grandi lotte che hanno segnato un passo ulteriore nell’emancipazione sociale e nella conquista di maggiori libertà personali sono accompagnate da eventi di questo genere. Ogni referendum ha le sue motivazioni e le sue ragioni per essere proclamato, ma esso rappresenta un’occasione importante per coinvolgere il popolo nella vita del proprio paese.
Che cos’è il referendum?
Il referendum è uno strumento di esercizio della volontà popolare, in quanto mezzo di democrazia diretta. Gli elettori, infatti, hanno la possibilità di rispondere a un quesito specifico con un “sì” o con un “no” su un tema oggetto di discussione. All’interno del nostro ordinamento sono contemplati diversi tipi di referendum, che si differenziano per le finalità. Il primo è quello abrogativo, volto ad annullare in tutto o in parte una legge o un atto avente forza di legge; poi esiste quello consultivo, con il quale si invita il cittadino a esprimere un parere su una determinata questione; con il referendum confermativo, invece, i cittadini sono chiamati a decidere sull’entrata in vigore di una norma; infine, il referendum propositivo, nato su iniziativa dei cittadini stessi, con il quale una proposta di legge è sottoposta alla consultazione popolare.
La storia d’Italia in sei referendum
Dopo il 1974, l’anno dello storico referendum sul divorzio, con cui gli italiani hanno decretato il mantenimento della possibilità di porre fine al matrimonio, l’uso dei referendum è aumentato notevolmente, soprattutto grazie all’iniziativa dei Radicali (solo nel decennio degli anni Ottanta ne hanno promossi dodici).
Il 1981, invece, è l’anno dell’aborto. Gli italiani si recano alle urne per ribadire il loro sostegno alla legge 194. Quattro anni dopo, nel 1985, è la volta del referendum sulla “scala mobile”, ovvero uno strumento economico volto ad adeguare automaticamente i salari in funzione dell’inflazione, al fine di contrastare la diminuzione del potere d’acquisto. Fortemente voluto dal Pci, guidato da Berlinguer, con un’affluenza del 71%, non ottenne il consenso degli elettori. Nel 1987, viene promosso il referendum sul nucleare. In tre diversi quesiti venne ribadirono il forte sentimento antinucleare che aleggiava nel paese dopo Chernobyl. Nell’aprile del 1993 viene promosso il referendum sull’abrogazione delle pene per la detenzione ad uso personale di droghe. Con oltre il 55% di “sì” viene scelta la non punibilità dell’uso personale.
Come funziona?
Per quanto riguarda i referendum abrogativi, la categoria di cui fanno parte gli stessi referendum sulla giustizia che si terranno il 12 giugno 2022, essi diventano validi solo se viene raggiunto il quorum, ovvero un’affluenza del 50% + 1. In caso contrario il referendum decade e perde di validità. Ci sono molti esempi passati di referendum che, non avendo raggiunto la percentuale di votanti necessaria, non hanno portato a nessuna decisione. È il caso, ad esempio, del referendum sull’abrogazione dell’Ordine dei giornalisti promosso dai Radicali nel 1997 o del referendum sull’abrogazione della legge che istituisce il Ministero delle risorse agricole, alimentari o forestali, promosso di consigli regionali sempre nel 1997.
Esistono strumenti similari in Europa?
Il referendum nasce in Svizzera nel XIX secolo come strumento di governo delle piccole comunità montane che praticavano forme di autogoverno. In occasione delle assemblee cantonali, le comunità inviavano i propri delegati, che potevano prendere decisioni soltanto con la riserva ad referendum, ovvero “per essere riferite”. Queste decisioni, quindi, erano frutto della volontà collettiva e potevano essere riferite solo se l’intera comunità approvava. Per tutto il XIX secolo il referendum è ancora assente da gran parte delle costituzioni liberali, con eccezione di Stati Uniti e Svizzera. Solo nel XX secolo esso diventa parte delle Costituzioni di altri Stati democratici, in quanto strumento per dare al popolo la possibilità di pronunciarsi su questioni prese dai parlamenti.
In Italia, invece, la forma del referendum venne inserita solo con l’elaborazione della Costituzione repubblicana nel 1947, nelle due forme del referendum costituzionale e abrogativo. Nel nostro ordinamento, quindi, è possibile cancellare – interamente o parzialmente – una legge, ma non proporla.
Per quale motivo un referendum può fallire?
Le motivazioni dietro il fallimento di un referendum possono essere molte, ma principalmente possono riguardare due ambiti: la comunicazione che si fa suo riguardo e il contenuto che porta. Fondamentale, per comunicare con efficienza le motivazioni del referendum, è dare vita a un’intensa campagna informativa, di modo che i cittadini sappiano costruirsi un’opinione in merito. Purtroppo, molto spesso si assiste a un quasi totale silenzio sulla questione da parte dei media. A prescindere dal contenuto del referendum, non informare a sufficienza i cittadini contribuisce all’assenza di opinione che, come sappiamo, non è mai motivo di vanto.
Inoltre, sotto certi aspetti è lecito domandarsi quanto sia valido porre domande troppo tecniche ai cittadini. Non sarebbe forse più efficiente trattare di certe questioni in ambiti dove si presuppone ci sia la qualifica adatta per farlo? È bene tenere a mente che non è sbagliato ritenere che l’aspetto democratico del referendum risieda nella possibilità di esprimere un assenso o un diniego in risposta a una domanda posta da altri, ma è non c’è dubbio che la democrazia non risieda solo nel dare la risposta, ma anche nel porre la domanda.
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