Durante il concerto tenuto lo scorso primo maggio presso l’Arci Tunnel di Reggio Emilia, una band ha messo in allerta le forze dell’ordine. P38 – La Gang con orgoglio ha sfoggiato sul palco bandiere e simboli delle Brigate Rosse. Così il nome: un esplicito rimando alla celebre pistola associata agli “anni di piombo”.
L’allarme
Le forze dell’ordine, allarmate, si sono messe alla ricerca dell’identità dei quattro componenti nascosta dietro nomi d’arte – Astore, Papà Dimitri, Yung Stalin, Jimmy Penthotal – e passamontagna coordinati, neri o bianchi a seconda della performance. “Ci piacciono l’Urss, il conflitto, gli anni di piombo. Non ci piacciono i fricchettoni, il libero mercato, Emma Bonino” aveva confessato la band sui social.
Un fenomeno ambiguo e pure fin troppo esplicito. Ma c’è chi li ha accusati di istigazione a delinquere. I sospetti – per prudenza o indignazione – rimangono. Nel primo brano pubblicato sul canale YouTube, Manifesto, una voca intima con chiarezza “la lotta armata è appena tornata di moda, adesso sono cazzi vostri”.
Lo scandalo del successo
L’indagine ha preso il via in seguito alle polemiche nate dopo la notizia del concerto. Il gruppo non era sconosciuto alle forze dell’ordine, che avevano accolto la denuncia per apologia di reato in seguito a un altro concerto tenuto pochi giorni prima, il 25 aprile, a Pescara, anch’esso presso un circolo Arci, lo Scumm.
La segnalazione è stata fatta da Bruno D’alfonso, figlio di un agente ucciso dalle Brigate Rosse durante lo scontro a fuoco ad Arzello di Melazzo, in provincia di Alessandria – era il 1975 e le forze dell’ordine indagavano sulla cattura dell’imprenditore Vittorio Vallarino Gancia. Per ironia della sorte anche il nipote dell’agente Giovanni, musicista, frequenta l’ambiente underground della città, e anche lui in passato aveva suonato presso la stessa sede Arci. Scatta così la prima denuncia.
Il presidente del circolo che ha ospitato il concerto del primo maggio, Marco Vicini, è stato interrogato dalla procura perché anche lui sotto accusa di istigazione a delinquere. In un intervista Vicini cerca di spegnere i fuochi stabilendo una analogia con i testi provocatori e l’attivismo di Giovanni Lindo Ferretti, frontman dei CCCP, e conclude “Penso comunque ci siano problemi più importanti”. Rispetto all’accaduto, l’Arci regionale, invece, prende le distanze.
Da alcune settimane molte testate giornalistiche riportano l’accaduto con i toni di un fatto di cronaca allarmante. I partiti di destra locali si stanno dando da fare per amplificare la notizia e muovere delle iniziative per limitare il movimento di sinistra. A Bologna la Lega ha chiesto al comune di revocare l’assegnazione dello spazio della Ex centrale del latte al centro sociale Crash, dove il gruppo si era esibito in aprile.
In pochi giorni comunque il fenomeno diventa virale. La band gongola: “A quanto pare il giorno è giunto: il variopinto mondo del giornalismo italiano si è finalmente accorto di noi. Benvenuti; siete in ritardo, ma vi aspettavamo”.
«Sono ragazzi» questi terroristi
Anche la figlia di Aldo Moro si sente coinvolta: nei testi i riferimenti al presidente della Democrazia Cristiana sono ricorrenti, talvolta ridondanti. Il titolo del brano “Renault” è un riferimento esplicito all’automobile in cui il 9 maggio 1978 venne ritrovato il corpo di Aldo Moro, vittima delle Brigate Rosse. Maria Fida Moro minaccia una denuncia: “Qui non si tratta di libertà di pensiero“, ha detto, “ma di istigazione al terrorismo“. Può far rabbrividire l’intro musicale del brano che, a guisa di spot pubblicitario, esalta le qualità del cofano dell’auto: “perché a volte l’unica cosa di cui si ha bisogno è spazio, tantissimo spazio”. Oltre l’ironia spregiudicata la band si è espressa in merito all’assassinio di Moro: “un morto, come lo sono i morti di overdose nelle periferie abbandonate dallo Stato, come lo sono i morti sul lavoro nelle fabbriche che ignorano le norme di sicurezza, come lo sono i morti di una pandemia gestita disastrosamente dalle istituzioni”. Sembra che le provocazioni, che fanno leva sullo sconcerto e lo stupore, siano strumento prediletto dalla band per porre l’attenzione su tematiche latenti o lasciate in secondo piano.
Viene spontaneo interrogarsi: fanno sul serio? A guardarli nei videoclip e leggendo i testi sembrerebbe di sì. Sono aggressivi, violenti, e hanno tutta l’aria di voler fare del male: “Mario Dragi nel cofano, 180 in curva”. Del resto sembra ci sia stato anche un attacco personale. Dopo la denuncia per il concerto di Pescara, D’Alfonso ha ricevuto sul suo profilo Instagram un messaggio minatorio attraverso un link che mostrava una vecchia foto del padre con la scritta “Sei il prossimo”. Si tratta di una vera intimidazione? Per quelli la cui vita è cambiata a causa delle BR certamente sì.
Intanto, prima che la band sparisse dai social – allontanandosi così dal ciclone– un post cercava di restituire i contorni della polemica da un altro punto di vista, quello musicale: “Potremmo far notare come nelle attuali classifiche, nei brani che passano in radio, nelle canzoni che ascoltano i vostri figli ancora prima di finire le scuole medie, vengono decantati reati ben peggiori. Parliamo di spaccio su larga scala, reati di mafia, stupri”. La violenza espressa nei testi e nel beat non è insomma una novità, la scena musicale è piena di band che fanno leva su un’estetica violenta e armata.
La trappola
Sul caso si è espresso persino Alberto Franceschini, oggi ultrasettantenne, che delle Brigate Rosse ne è stato il fondatore negli anni ‘60. Al Corriere Franceschini ha dichiarato: “Quella della Gang P38 mi sembra una strumentalizzazione finalizzata a fare pubblicità. Quello delle Brigate Rosse è stato un capitolo drammatico della storia italiana del Novecento”. Parole che sembrano voler sottolineare una certa distanza tra il fenomeno musicale della band trap e l’attività effettiva dell’organizzazione terroristica – da cui ormai ha preso le distanze.
“Il capitale è una tigre di carta, la scena trap è una tigre di carta, l’industria musicale è una tigre di carta. Non siete rapper, siete degli imprenditori del cazzo” dice la P-38 in Manifesto. È una questione artistica, è la solita retorica trap. L’unica nota di colore: “Noi abbiamo letto Gramsci, stronzi”. E questa sembra essere l’unica differenza, pure significativa, tra loro e un qualsiasi altro gruppo trap “armato”.
“Quando si parla di arte e musica, è spesso la provocazione a scuotere gli animi, a far voltare le teste. Siamo estremi? Sì. Siamo provocatori? Sì. Tutto questo è voluto.”
Si tratta insomma di un prodotto culturale, un’esagerazione artistica congetturata che certo si prende la libertà di ferire (più di) qualcuno. Un amalgama abbastanza convincente – anche per la Digos – di capacità artistica e un’eredità storica cava, formale, che chiede di sfogarsi in un luogo specifico: il mercato musicale. “Siamo qui per creare slanci. Se davvero fossimo componenti di un gruppo armato clandestino forse strillarlo nei pezzi e sui palchi non sarebbe la migliore strategia da adottare”. Nel Manifesto l’espressione “stalinismo becero” esprime con autoironia proprio la poca serietà politica. In favore della lotta, questi soggetti non cercano armi, piuttosto views.
Intanto la Digos ha rintracciato l’identità dei quattro componenti: rischiano fino a otto anni di detenzione. Un’esagerazione? Siamo nel pantano borderline della libertà d’espressione.
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