Gli abissi di James Cameron

When you look long into the abyss, the abyss also looks into you.

Sembra difficile immaginare una massima filosofica in grado di restituire, in poche e semplici parole, la poetica di un autore. Così come, con ogni probabilità, i cinefili che nel lontano agosto del 1989 varcarono le sale cinematografiche per The Abyss, non si aspettavano che la frase d’apertura del film, estrapolata da Friedrich Nietzsche, potesse racchiudere non solo il senso del lungometraggio in questione, bensì una illuminante chiave di lettura di buona parte della filmografia di James Cameron. Il cineasta canadese che, forse più di qualunque altro collega, ha fatto dell’abisso fisico e metaforico una vera e propria vocazione autoriale, dedicando anni della sua esistenza a scandagliare le profondità marine e, in particolar modo, umane.

Un modus operandi che permea il cinema di Cameron ormai da quattro decenni e che il regista, nel corso del tempo, ha saputo più volte declinare nell’articolazione di una composita analisi sociologico-naturalistica, volta a rivelare e fare luce sulle differenti realizzazioni dell’incontro tra uomo e natura, sia essa terracquea o aliena.

 

Il mare: paura, ultimatum, hybris

 

Da Piranha paura…

Frasi di James Cameron (26 frasi) | Citazioni e frasi celebri

È il 1981 quando a James Cameron viene affidata la regia di Piranha paura (The Spawning), sfortunato sequel italo-americano dell’horror Piranha di Joe Dante rilasciato nel 1978. Sequel travagliato, ignorato da pubblico e critica, costretto a barcamenarsi tra difficoltà di natura produttiva e scarse ambizioni narrative. Un film a cui il regista, per sua stessa ammissione, lavorò solo per poche settimane, per poi essere ufficiosamente licenziato dal suo incarico. Un film, dunque, rinnegato dallo stesso Cameron, il cui nome, mantenuto dalla produzione per ragioni puramente contrattuali, sembra più assomigliare ad una ingannevole e sbiadita etichetta, lontana anni luce dal marchio di garanzia qualitativa che di lì a pochi anni si sarebbe meritevolmente guadagnato.

Piranha paura conserva però ancora lo strambo fascino di un inizio stentato, di un progetto sghembo e confuso, maldestra riproposizione in salsa “piranhesca” del paradigma orrorifico che fece la fortuna de Lo squalo di Steven Spielberg (1975), le cui atmosfere, meravigliosamente riadattate dal solo Alien di Scott, avrebbero curiosamente scritto, nel tempo di un lustro, anche la fortuna di Cameron (Aliens – Scontro finale, 1986).

Un James Cameron che tuttavia, e forse inconsciamente, ebbe modo, con Piranha paura, di gettarsi per la prima volta tra le fauci delle dinamiche produttive e, seppur solo per poco, di immergersi nel mare magnum della settima arte e porre le basi del proprio futuro artistico. Un futuro che, otto anni dopo, lo avrebbe ricondotto fra le insidiose meraviglie dei sette mari.

…a The Abyss e Titanic

E torniamo così all’estate del 1989, a quel mese di agosto e a quell’abisso di nietzschiana memoria le cui profondità rappresentano per il regista un moto discendente in qualche modo riequilibratore delle dinamiche futuristiche e interstellari proprie del binomio Terminator-Aliens. Profondità oceaniche che inoltre, in poco meno di dieci anni (intervallati dallo strapotere di Schwarzenegger in Terminator 2 e True Lies), assumeranno sembianze quasi opposite, colorandosi della speranza di The Abyss e assorbendo l’oscurità storica insita nella pur romanzata elaborazione della storia del Titanic (1997).

I due lungometraggi trasportano lo spettatore in dimensioni tanto distanti quanto, per certi versi, quasi sovrapponibili. Il blu intenso dell’oceano, costante cromatica delle pellicole, è infatti foriero di messaggi per l’umanità. Ed è proprio la bilancia cosmica tratteggiata dal regista tra uomo e mondo naturale ad assumere connotazioni divergenti tra il 1989 e il 1997. Sul finire degli anni ’80 Cameron pesca ancora dal maestro Spielberg, da E.T., da quella atmosfera sognante e di confortante amicizia umano-aliena, raccontando un ultimatum subacqueo che guarda alla nostra specie ancora con fiducia, anticipando di molti anni lo sbarco extraterrestre villeneuviano di Arrival (2016).

Una fiducia dispersasi tra le onde dell’epopea di Jack e Rose, fantasiosi testimoni di di una hybris reale, di una umana tracotanza che molto crea, ma altrettanto distrugge e di un desiderio di sfida alle divinità marine di ispirazione omerica che, curiosamente, si specchia nella “arroganza” produttiva di un cineasta sempre più ambizioso e monumentale. Due pellicole figlie del proprio autore, parte integrante di un progressivo percorso di lettura “cameroniana” del qui e ora, di un presente che, malgrado i numerosi avvertimenti, appare ormai sempre più distante dal controllo umano.

Pandora

Avatar wallpaper | Rego Korosi | Flickr

E il futuro? Parlarne con James Cameron, almeno fino a qualche decennio fa, significava presagire una guerra tra uomini e macchine, viaggi temporali o robot assassini. Oggi la pigmentazione marina tanto cara al regista è tornata al centro della sua opera creativa. Ma il nuovo blu di Cameron, non appartiene al nostro pianeta. È il blu di Pandora, della pelle dei Na’vi, manifestazione quasi didascalica della possibilità di un’esistenza in armonia con il creato. E, in Avatar 2, sarà anche il blu delle immense distese d’acqua che ricoprono il fantomatico pianeta immaginato dal regista.

Un nuovo mondo dove ritrovare una pace ormai dimenticata, dove ammirare le meraviglie che la nostra specie si ostina a non voler preservare e, forse, dove fuggire, quantomeno con l’immaginazione, dall’oscurità opprimente del nostro abisso di autodistruzione.

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