La resilienza urbana: le nostre città alla prova del Covid

Con l’espressione “resilienza urbana”, i geografi si riferiscono alla capacità di una città di resistere a uno shock, un evento inatteso e catastrofico, ritornando alle condizioni precedenti al suo verificarsi. La lista dei possibili sconvolgimenti va dalle catastrofi ambientali (terremoti, alluvioni, eruzioni vulcaniche, maremoti) agli attentati terroristici, dalle crisi economiche e sistemiche (come quella cominciata col crack di Lehman Brothers nel 2008) alla chiusura di un’attività industriale di grandi dimensioni. Ma a questo lotto è necessario aggiungere, facendo fruttare l’esperienza dell’ultimo biennio di pandemia da Covid-19, anche gli eventi epidemici.

Difficilmente dimenticheremo le immagini relative alla notte tra il 7 e l’8 marzo 2020. Il governo Conte aveva appena annunciato l’imminente lockdown, e molte grandi città, soprattutto del nord (Milano in testa) si affollavano di caroselli di persone intente a fare ritorno al paese d’origine, perlopiù al sud. Sembrava di assistere a una scena del film di John Carpenter 1997: Fuga dalla città. Di lì a qualche mese, complice la rivoluzione dello smart working, in tanti si sarebbero affrettati a profetizzare un declino urbano, una crisi delle città dovuto al ritorno a un modello neorurale”. Ma sta davvero andando così?

L’urbanizzazione del mondo

In primo luogo occorre focalizzare il momento storico che le nostre città (“nostre”, cioè del cosiddetto nord del mondo, quello dei Paesi di più antica industrializzazione) stanno attraversando. Da quando l’industrializzazione, e soprattutto il boom economico, hanno scardinato il modello della città storica, cinta da mura perimetrali, compatta e coesa, l’urbanizzazione del mondo ha toccato vette che non hanno precedenti nella storia dell’umanità.

Se, prima del XVIII secolo, il modo di vita urbano era l’eccezione e quello rurale la regola (si calcola che nel 1800 appena il 2% della popolazione mondiale vivesse in un ambiente urbano), oggi i modelli matematici ci dicono che entro il 2050 la popolazione urbana sarà il 68% di quella mondiale. Nel frattempo sono intercorsi altri fenomeni, soprattutto quello della disindustrializzazione, la fuoriuscita delle fabbriche dallo spazio urbano. Che ha prodotto, a livello geografico, la nascita della cosiddetta “città diffusa”, una città tutt’altro che compatta, a bassa densità (sul modello americano), difficile da delimitare spazialmente e demograficamente.

Urban way of life

La nascita delle città diffuse ha portato, come scrive Dematteis, alla “banalizzazione” del modo di vita urbano. Ovvero: certe caratteristiche economiche, sociali e culturali, un tempo appannaggio della città, oggi si diffondono anche in ambienti che dal punto di vista fisico e paesaggistico incarnano ancora il modello rurale.

In altre parole: se la montagna (le persone) non viene a Maometto (la città con il suo “urban way of life”) è Maometto che va alla montagna. I dati che negli ultimi decenni parlano di un lieve decremento demografico nelle città europee sono in parte spiegabili come frutto del trasferimento di popolazione lì dove, anche non essendo città, i servizi tipicamente urbani e lo urban way of life continuano a essere garantiti. E in parte sono compensati da uno speculare moto di riurbanizzazione, di ritorno alla città, che vede come principali protagonisti i neolaureati che intendono trovare lavoro.

Un rifiuto dell’urbanesimo?

Potremmo però immaginare che le scene del marzo 2020 siano il sintomo di un “rifiuto dell’urbanesimo” non ancora mappato dalle statistiche ufficiali. Ma i dati a nostra disposizione sembrano smentire categoricamente tale ipotesi. Come scrive Stefano Cingolani sul «Foglio»:

già dall’estate a Milano e nelle principali città degli affari si è registrato un afflusso di acquisti per lo più da parte di gruppi immobiliari internazionali. Si compra perché i prezzi sono ancora bassi, ma si compra perché si punta sulla ripartenza e così facendo la si rafforza.

Tra chi va alla ricerca di immobili, in questo periodo storico, prevale “la domanda per nuovi spazi da poter integrare con le differenti tipologie di lavoro ibrido”. Non solo: lo smart working, sottolinea il giornalista, ha cambiato in poco o niente le nostre abitudini in fatto di partecipazione allo stile di vita urbano. “Non c’è stato nessun esodo […]: chi ha lasciato i centri urbani, chi si è rifugiato in campagna, nei borghi, nella seconda casa, o nel nido avìto”, se è passato al modello dello smart working, “in ogni caso la sua vita fa perno sulla città”. Indicativo in questo senso anche il recente acquisto, da parte di Google, di un’enorme struttura a Manhattan dove concentrerà migliaia di dipendenti. Evidentemente, “il lavoro agile e quello in presenza tenderanno a diventare complementari, a integrarsi, in un modello ibrido e flessibile”.

Resilient cities

Questo ci fa tornare al concetto di resilienza urbana. Un programma ONU del decennio scorso si proponeva di rendere le città resilienti, cioè in grado di affrontare eventi eccezionali. Le città meno resilienti sono tipicamente quelle monofunzionali, cioè la cui economia ruota attorno a un’unica attività (se chiude quella, sono guai: è il caso di Detroit-General Motors) e ovviamente quelle che non dispongono di infrastrutture adeguate a fronteggiare il rischio ambientale (si pensi al Sud-Est asiatico e alle frequenti alluvioni che ne inginocchiano le popolazioni). Quelle che mostrano i valori più alti di resilienza urbana sono invece le città polifunzionali, capaci di garantire un variegato ventaglio di attività economiche (o funzioni urbane) grossomodo equipollenti.

Si potrebbe pensare che una città come Milano, ancorata ai flussi economici globali, abbia sofferto più di altre il periodo di lockdown. Ma, come sostiene ancora Cingolani, la fase successiva alle prime due ondate dell’epidemia ha mostrato come le città siano state “in prima linea nel far fronte alla crisi (lo dimostra la campagna vaccinale)”; “hanno dovuto rispondere ai bisogni della popolazione” e hanno guidato la ripartenza. L’ex sindaco di New York, Bill de Blasio, ha detto che la sua città, la più ancorata ai flussi globali per storia e natura, impiegherà due anni per ritornare ai livelli economici e di occupazione pre-Covid. Ma si dimostrerà, come dopo l’11 settembre, “la città più resiliente al mondo”.

Normalità

È impossibile, infine, ignorare la sorprendente convergenza tra il nucleo concettuale associato all’idea di resilienza urbana – il “ripristinare le condizioni di partenza”, sconvolte da uno shock – e uno dei motti più (ab)usati in questo biennio di crisi pandemica, l’ormai tanto dibattuto “torneremo alla normalità”. In fondo, sia per quel che riguarda le catastrofi ambientali, sia per quel che riguarda il Covid-19, il ritorno alle condizioni di partenza, obiettivo perseguito dal Network delle Resilient Cities ONU, non è forse una “pezza”, una soluzione semplicistica per un problema complesso? Non è forse un modo di mettere la testa sotto alla sabbia ignorando la congenita manchevolezza della cosiddetta “normalità”?

Salvezza

Quel che è certo, è che, al di là delle aspettative, le nostre città si stanno dimostrando capaci di resistere all’urto pandemico, e sono anzi capofila della ripresa. Il grave problema cui tuttavia le amministrazioni municipali di molti Paesi al mondo, compreso il nostro, devono far fronte è l’annichilimento della loro governance: come scrivono Amin e Thrift, “paradossalmente, la nuova centralità urbana avviene senza un paragonabile aumento di potere delle autorità locali. In tutto il mondo, i governi della città sono ostacolati da vincoli fiscali e giuridici” che ne limitano il margine d’azione. Nel Seicento, il filosofo Giambattista Vico scriveva: “L’uomo venuto a vita civile ama la sua salvezza con la salvezza delle città” – faremmo bene a tenerne conto, anche a distanza di quasi 4 secoli.

FONTI

Il Foglio

Rinnovabili.it

Dematteis, Lanza, “Le città del mondo. Una geografia urbana”, Utet, 2014

Amin, Thrift, “Vedere come una città”, Mimesis edizioni, 2017

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