Il 17 giugno 2019 arriva una notizia dal Cairo che lascia con il fiato sospeso il mondo intero: è morto Mohammed Morsi, il primo presidente della storia d’Egitto eletto democraticamente. La sua elezione è stata accolta dal 51,7% dei consensi (contro il 48% rivolto al mubarakiano Ahmed Shafiq). La sua morte arriva appena quindici minuti dopo l’inizio di un processo in tribunale che lo vedeva imputato per diversi crimini compiuti durante i suoi dodici mesi di governo. Tra le accuse pendenti comparivano offesa a pubblico ufficiale, evasione dal carcere, coinvolgimento in attività terroristiche e spionaggio a favore del Qatar.
La sua morte, probabilmente causata da sei anni di internamento vissuti in condizioni precarie, ha riaperto una ferita profonda nella storia recente del paese, perché ha ricordato il sostanziale fallimento dell’esito delle rivolte arabe del 2011.
Vita e giovinezza di Mohammed Morsi
Mohammed Morsi nasce nella regione di Al-Sharqiyyah, nella parte più orientale del Nilo. Dopo aver ottenuto una laurea triennale e una magistrale all’Università del Cairo, lascia il paese per proseguire la sua formazione negli Stati Uniti. Qui ottiene un dottorato in ingegneria alla USC (University of Southern California) e intraprende i primi passi verso una brillante carriera accademica, insegnando all’Università della California e collaborando con la Nasa. Nel 1985 ritorna in Egitto, dove inizia a insegnare ingegneria all’Università di Zagazig.
Una volta tornato in patria, Morsi si avvicina sempre di più al mondo politico, diventando un membro attivo nei Fratelli Musulmani. Nel 2000 il suo impegno viene premiato con l’elezione all’Assemblea popolare (la Camera bassa del Parlamento egiziano), dove siede come membro indipendente, poiché l’organizzazione islamista di cui faceva parte era formalmente bandita dal paese.
Carriera politica
La legislatura decisiva fu quella tra il 2000 e il 2005, anche se il vero slancio arrivò tra il gennaio e il febbraio del 2011, quando la rabbia egiziana esplose in proteste di piazza di grandi dimensioni. In questo periodo di forte instabilità, passato alla storia come la “Primavera Araba”, i Fratelli Musulmani si fecero protagonisti di un tentativo di transizione dal regime di Mubarak a una prospettiva politica che fosse più aperta e inclusiva.
In questo periodo Morsi diventò presidente del partito Giustizia e Libertà, nato in seno alle proteste e fortemente legato all’azione dei Fratelli Musulmani. Una volta uscito di scena Mubarak, egli venne designato come il candidato per le successive elezioni presidenziali, nonostante le voci critiche che lo vedevano come una “ruota di scorta” scelta in mancanza di alternative più credibili. Nonostante tutto, egli riuscì ad essere eletto e diventare, appunto, il primo presidente della storia egiziana a essere eletto dal popolo.
Una presidenza ambigua
La sua elezione è oggetto di forti speranze per il popolo egiziano, che vede in Mohammed Morsi il primo passo verso una storia più democratica di quella che aveva conosciuto fino a quel momento. Diviso tra i timori della critica internazionale che stigmatizzava i Fratelli Musulmani come “terroristi” e i disordini interni, la sua legislatura mostra fin dall’inizio forti criticità e inadeguatezze. Senza dubbio, la sua mediazione è stata fondamentale per una tregua tra Israele e Gaza ma molte delle scelte che ha fatto, spinto dal successo ottenuto, sono da ritenersi come impopolari. La decisione di emanare un decreto che gli avrebbe concesso poteri così ampi da promuovere una nuova Costituzione diventa motivo di numerose manifestazioni popolari. Molti tra coloro che lo avevano sostenuto lo accusano di aver incarnato i valori autoritari che avrebbe dovuto eliminare, tradendo la rivoluzione del 2011.
La fine della sua breve parentesi “democratica”
Dopo appena un anno di governo, tra il giugno e il luglio del 2013, la stessa piazza (quella di Tahrir, per intenderci) che lo aveva acclamato diventa la causa della sua disfatta. Così, travolto da un’insurrezione popolare, forse fomentata dagli stessi militari che lo avevano messo al potere, Morsi viene allontanato dai palazzi del potere e arrestato. La sua deposizione rappresenta non solo la fine della sua esperienza politica personale, ma anche la fine della riscossa dei Fratelli Musulmani dopo sessant’anni di repressione. Costoro verranno nuovamente messi al bando, mentre Morsi verrà recluso con l’accusa di aver falsificato le firme elettorali che lo avevano portato alla vittoria nel 2012. Ma la sentenza più pesante arriva nel 2015, quando il tribunale penale del Cairo decreta la sentenza di morte, poi annullata.
Cosa rimane dopo di lui?
L’allontanamento di Morsi ha riportato in auge un rinnovato militarismo, accompagnato da una feroce repressione per tutti coloro che in qualche modo avevano collaborato con i Fratelli Musulmani. Sono seguite decine di arresti, imposizioni autoritarie, repressione di voci critiche e controllo dei media.
Tuttavia, nonostante il pragmatismo che Mohammed Morsi ha sempre dimostrato durante la sua legislatura, è bene ricordare che il suo allontanamento forzato dal mondo della politica acquista un significato molto complesso. Mohammed Morsi non è mai stato un leader particolarmente carismatico, in grado di far pendere dalle sue labbra folle di migliaia di persone. La sua elezione è forse il risultato di un accordo tra le diverse anime del partito, che lo vedevano come il miglior candidato possibile in virtù del suo forte legame con la fazione di cui faceva parte. Ma il golpe e poi successivamente la sua morte rappresentano uno spartiacque nella storia politica dell’Egitto.
Il significato della sua morte
Di fronte alla sua scomparsa, avvenuta in circostanze che fanno sorgere delle domande, si è detto molto. C’è chi ha gridato al complotto, chi ha accusato le precarie condizioni di internamento e chi, in mancanza di prove concrete, ha richiesto un’indagine più limpida. Al di là delle speculazioni che si possono fare sulla questione, la sua scomparsa lascia un’eredità complessa e difficile da accogliere. Molti osservatori affermano che la sua morte ha decretato la fine di quella parabola politica che vedeva gli islamisti al potere, poi fermamente ostacolati dai cristiani copti. La sua scomparsa è quindi il simbolo di un potere da piegare e porre entro i limiti del gioco imposti da una politica spesso imprevedibile.
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