Questa è la storia di una coppia di registi e dei suoi fallimenti. La cui morale – meglio precisare subito – non sbandiera la consumata e antipatica convinzione per cui il successo giunge solo dopo aver preso innumerevoli nasate. Bensì spiega come gli automatismi di un sistema, anche uno longevo e in apparenza innovatore come Hollywood, spesso rischiano di perdersi idee che potrebbero definire un’epoca.
La storia, dicevamo, è quella di Matt e Ross Duffer, fratelli, gemelli, trentasettenni, e perciò membri di una generazione a cui è stato detto che i sogni si possono concretizzare sempre, omettendo però la lunga parte di aridità e disillusione da cui bisogna passare prima di arrivarci.
Anche la loro, di storia, del resto inganna. Il suo punto più alto, cioè Stranger Things, cioè una nostalgica serie tv di fantascienza diventata un fenomeno culturale, fa sembrare la loro breve carriera una passeggiata. Dietro, però, c’è almeno un decennio di rimbalzi universitari, false promesse, e rifiuti da parte di produttori disinteressati o poco lungimiranti, che i due registi hanno attraversato prima di incrociare Netflix e vedere il proprio cognome diventare il simbolo di uno stile televisivo ben riconoscibile.
Gli inizi
Per i pochi che ancora non la conoscono, Stranger Things è ambientata negli anni Ottanta, dove un gruppo di preadolescenti piuttosto nerd diventa l’eroico protagonista di una movimentata lotta contro pericolose forze del male. Non è un caso che la storia dei fratelli Duffer (li chiameremo così, come i fratelli Coen, i Duplass, i Manetti) ne ricalchi la trama. Proprio come la serie, è “una favola improbabile, eppure coinvolgente e infine stimolante,” ha scritto «Vulture». Solo, anziché in una cittadina immaginaria dell’Indiana, il suo incipit si colloca nel North Carolina, dove i fratelli Duffer nacquero nel 1984 e già da bambini decisero di voler fare i registi.
Il primo film a colpirli fu Batman di Tim Burton, uscito nel 1989. Da quel momento, buona parte della loro infanzia trascorse davanti a uno schermo, a vedere e rivedere film di registi iconici come Steven Spielberg, John Carpenter, Sam Raimi. Ad affascinarli, hanno spiegato i fratelli Duffer al «Guardian», era il fatto che dietro ogni opera si riuscisse a riconoscere la mano di questi registi. “Da un film al successivo […] si potevano unire i punti, perché il loro stile era ben definito”.
A sviluppare il proprio, di stile, i fratelli Duffer iniziarono in terza elementare, grazie a una videocamera Hi8 regalatagli dai genitori. Allora come oggi, il loro percorso non ha mai deviato da due princìpi: suscitare nel pubblico le stesse emozioni vissute guardando i loro film preferiti; e farlo rigorosamente insieme. Scelta che ha determinato il successo dei fratelli Duffer, ma anche una parte dei loro fallimenti.
I passi falsi
Se nel curriculum dei fratelli Duffer c’è una laurea alla Chapman University – un ateneo privato a sud di Los Angeles, non certo di prima scelta per quel che riguarda le discipline artistiche – la ragione è piuttosto semplice. Fu una delle poche università a non rifiutarne la domanda di iscrizione, nonché l’unica ad accettare che i due fratelli lavorassero insieme. “Non sappiamo nemmeno come lavoriamo da soli. Ci siamo evoluti così, come una squadra. Non avevo davvero alcun interesse a sviluppare le mie capacità senza [mio fratello],” ha raccontato Matt.
Una volta usciti di lì, nel 2007, per i Duffer iniziò un decennio abbastanza difficile: stage da portatori di caffè; una dozzina di cortometraggi; e un film horror – Hidden – acquisito nel 2011 da Warner Bros., ma rilasciato quattro anni dopo senza nemmeno passare dai cinema. Tra i suoi pochi spettatori c’era tuttavia anche il regista M. Night Shyamalan, che assunse i due fratelli come sceneggiatori di Wayward Pines. (Per chi ne avesse già scordato l’esistenza, probabilmente in tanti, è una serie che uscì con l’infondata convinzione di poter cogliere l’eredità di Twin Peaks.)
L’idea di Stranger Things cominciò a prendere forma proprio in questo periodo. Quello che fecero i fratelli Duffer, fu incapsulare tutte le loro ossessioni di infanzia in un’unica premessa: “Cosa accadrebbe se Steven Spielberg dirigesse un libro di Stephen King?”. Per dare un’idea concreta dello stile e dei toni della storia, i due incollarono – con risultati un po’ kitsch – i propri riferimenti cinematografici in un lookbook e in un finto trailer da presentare a tutte le principali case di produzione.
Il progetto di Stranger Things fu respinto circa 15-20 volte per motivi differenti. Alcuni studios diffidavano dall’idea di affidarne la realizzazione a due fratelli sconosciuti. Altri – la maggioranza – erano convinti che la sua miscela equilibrata di fantascienza e horror, personaggi molto giovani e più adulti non fosse adatta ad alcun target di spettatori. Altri ancora non sembrarono semplicemente colpiti dal progetto. “Entri in queste stanze e sono tutti indifferenti a qualsiasi cosa tu abbia da dire ancora prima che apra bocca,” ha detto Matt Duffer. “Ci sono stati momenti in cui abbiamo pensato ‘Non sfonderemo mai, perché nessuno ci prenderà sul serio’”.
Il successo
In questa avvilente sfilza di rifiuti, c’è però un merito da attribuire agli studios: aver spinto, seppur per necessità di mercato, i fratelli Duffer a progettare Stranger Things come una serie tv, anziché come un film. Un formato più lungo avrebbe infatti permesso loro di portare a un livello ancora più articolato e preciso quello che già era riuscito negli anni Ottanta a Stephen Spielberg: prendere storie potenzialmente pacchiane ed elevarle.
Quando l’idea della serie arrivò nelle mani di Shawn Levy (all’epoca perlopiù conosciuto per i film di Una notte al museo), al produttore bastarono 10 minuti per cogliere il potenziale della serie e convincersi che valesse la pena di proporla a Netflix. La quale, nel giro di 24 ore, ne ordinò una stagione intera e diede ai fratelli Duffer carta bianca nel realizzarla.
Con l’uscita dei primi episodi, nell’estate del 2016, Stranger Things generò un senso di condivisione che non si vedeva dal debutto del Trono di Spade. Al momento – con tre stagioni all’attivo e una attesissima in arrivo – è una delle serie di punta di Netflix, nonché una delle più seguite in assoluto. Ma soprattutto, Stranger Things è stata finora capace mantenere alto l’interesse del pubblico anche nelle lunghe pause tra una stagione e l’altra. Una specie di miracolo, nell’affollata epoca dello streaming.
Cos’ha di speciale Stranger Things?
Netflix non è ancora riuscita a figurarselo molto bene. Benché abbia costruito il suo successo sulle scommesse (pur ben calcolate con un uso ossessivo dei dati), l’azienda streaming ha ammesso di aver avuto il piccolo timore iniziale che Stranger Things potesse deludere gli utenti. In maniera simile, gli stessi fratelli Duffer non hanno ancora capito quale sia stato il segreto del loro successo. Qualche spiegazione però c’è.
Stranger Things, innanzitutto, guarda al passato in un modo tutto suo, senza omaggiarlo né parodiarlo. «Vulture» l’ha definita una “ricombinazione genetica: non tanto una serie nostalgica della cultura pop anni Ottanta, quanto un nostalgico reimmaginare la cultura pop anni Ottanta”. Stranger Things riesuma il passato, ma con un’energia e una struttura che si adattano perfettamente al presente (è breve e produce un meme dopo l’altro). Buona parte del piacere di guardare la serie sta nella ricerca dei riferimenti a una cultura che non appartiene solo ai millennial che l’hanno vissuta. Internet, con il suo collidere di suoni, immagini, riferimenti visuali di epoche diverse, ha reso i personaggi dei Goonies e le scene di E.T, i giochi da tavolo vintage e le biciclette BMX riconoscibili a qualsiasi generazione.
C’è poi da considerare una buona dose di conforto. Quello di Stranger Things è un mondo sì avventuroso, ma anche un rifugio rassicurante dove la genuinità del bene vince sempre sulle macchinazioni del male. Nemmeno le parti horror riescono a mettere davvero paura, anche un po’ per goffaggine dei suoi stessi creatori. “La nostra incapacità di spaventare davvero è finita per ripagare, ma non era intenzionale,” hanno detto al «Guardian».
Del resto, nell’improbabile biografia dei fratelli Duffer, di intenzionale c’è poco. Compresa una filmografia così corta, che sembra non aver ancora riscosso i benefici del successo di Stranger Things. Stavolta non per fallimento di idee, ma perché “abbiamo capito di essere davvero pessimi nel multitasking”.