Una lussuosa confezione può dare lustro al suo contenuto, esaltarlo, renderlo visivamente memorabile. Ma, priva di contenuto, anche una confezione di tal fattura sarà sempre e solo un guscio vuoto, un calice asciutto. Ragion per cui un grande regista può dare vita ad un prodotto eccellente, ma una sceneggiatura non all’altezza rischia di vanificarne il lavoro, trasformandolo in un mero esercizio stilistico.
Vi sono al contrario casi in cui, nella storia della settima arte, la fase di scrittura ha regnato sovrana; casi in cui lungometraggi ambientati in una sola location hanno saputo tenere il pubblico incollato allo schermo. Casi in cui una grande sceneggiatura ha saputo porre in secondo piano la direzione tecnica dell’opera.
Le iene
Il 1992 rappresenta l’esordio assoluto di uno dei cineasti più influenti degli ultimi trent’anni, la cui firma e il cui tratto stilistico sono ormai marchio di fabbrica inconfondibile. Le iene è il primo film di Quentin Tarantino, che, come diverrà consueto, è sia regista che sceneggiatore dell’opera. Un gangster movie profondamente anticonvenzionale, ambientato in una manciata di location, ma contraddistinto da una tensione narrativa crescente.
Un gruppo di criminali viene assoldato per un colpo, con l’ordine di riunirsi in un unico luogo una volta eseguito l’incarico. Qualcosa va storto, qualcuno ha tradito, ma l’identità della talpa è sconosciuta. La componente dialogica, destinata a divenire un cult del cinema tarantiniano, ha ne Le iene la sua genesi. Gli scambi di battute tra i personaggi coinvolti sono una prepotente calamita per l’attenzione dello spettatore e rappresentano un’utile cartina al tornasole per misurare l’evoluzione della pellicola. Rilassata nelle primissime scene, concitata per la maggior parte del minutaggio rimanente, anche se spezzata da alcuni flashback con funzione didascalica. Novanta minuti di fuoco a suon di pallottole; novanta minuti di emozioni forti, alla scoperta della natura umana celata dietro al farabutto. Un cast da favola, pochissimi ambienti e un’esigua tavolozza di colori: il bianco e nero dell’abito gangster, il rosso acceso del sangue destinato a macchiarlo.
Perfetti sconosciuti
Dall’America all’Italia, dal gangster movie d’oltreoceano alla commedia drammatica nostrana. Da Quentin Tarantino a Paolo Genovese. Rilasciato nel 2016, Perfetti sconosciuti è subito divenuto uno dei film simbolo della nostra produzione, conquistando il cuore del pubblico del Bel Paese e guadagnandosi anche due David di Donatello (miglior film e migliore sceneggiatura), su un totale di nove nomination. Una pellicola da record, dall’incontenibile successo nazionale e internazionale, come dimostrano i 18 remake in giro per il mondo che hanno permesso all’opera di entrare nel Guinness dei primati.
Perfetti sconosciuti concentra il succo della propria materia all’interno di una casa e le poche scene al di fuori di essa occupano un minutaggio davvero esiguo oltre che un ruolo narrativo più che altro accessorio al resto della pellicola. Protagonisti del film sono un gruppo di amici, ritrovatisi a cena per condividere una serata in allegria. A rompere l’idillio è una proposta, un semplice gioco. Un’idea che, portata dopo portata, rischia di demolire i loro rapporti.
Paolo Genovese pone al centro dell’opera i segreti, le ipocrisie, la cattiveria che perfino un gruppo consolidato può nascondere. La scintilla dell’incendio è uno strumento d’uso comune, il cellulare, la “scatola nera delle nostre vite”. Un piccolo schermo, una chat segreta, un numero sconosciuto. A divampare sono dialoghi costruiti al dettaglio, colpi di scena tanto verosimili quanto inquietanti e un finale da mozzare il fiato e turbare le coscienze.
La parola ai giurati
Numerosi sono i film a tema processuale e nel corso dei decenni le case di produzione hollywoodiane hanno saputo raccontarci diverse storie che avessero un tribunale come centro nevralgico della narrazione. Processi reali o immaginari, appassionanti sfide tra avvocati, emozionanti arringhe ed interrogatori, clamorose sentenze e incredibili ribaltamenti. La parola ai giurati, in questo senso, si distingue da ciascuno di essi, rivelandoci un aspetto atipico della struttura giudiziaria e mostrandoci il dietro le quinte di un “normale” processo per omicidio.
È il 1957 e Sidney Lumet dirige un film destinato a rimanere negli annali della storia del Cinema e costruito sulle fondamenta della visionaria sceneggiatura di Reginald Rose. L’intera (o quasi) successione degli eventi ha luogo dentro una singola stanza, all’interno della quale 12 giurati devono stabilire la colpevolezza o l’innocenza di un giovane ragazzo accusato di parricidio. In apparenza tutto sembra destinato a risolversi in pochi minuti, all’unanimità; ma il ragionevole dubbio di uno dei dodici spariglia le carte in tavola, dando il via ad una lunga discussione dall’esito incerto.
Ancora una volta la telecamera si pone al servizio della parola, definendo la pellicola come uno dei capostipiti più importanti di un Cinema a struttura minimalista, consacrato alla maestria della scrittura. Una maestria che trova adeguato riflesso nei volti dei suoi co-protagonisti e, in particolare, negli sguardi di due mostri sacri come Henry Fonda e Lee J. Cobb.
Locke
Per chiudere questa breve panoramica è forse opportuno raccontare di una pellicola del 2013, punto d’arrivo fondamentale all’interno di questo climax claustrofobico ascendente. Parliamo di Locke, opera del 2013 scritta e diretta da Steven Knight, brillantemente interpretata da Tom Hardy e fondata su una geniale e coraggiosa trovata di sceneggiatura.
Un uomo solo in un auto. 85 minuti. Un film girato in 8 notti. Il perfetto riassunto di quanto Locke poggi tutto il proprio peso sull’abilità di scrittura di Knight, in grado di mantenere alte tensione e curiosità, costruendo una trama che secondo dopo secondo si arricchisce di particolari. Tom Hardy interpreta il ruolo di Ivan Locke, un capocantiere che, al termine di una giornata di lavoro, sale sulla propria auto, sola location di tutta la pellicola, per dirigersi in un luogo che lo spettatore ancora non conosce. Gli auricolari e il cellulare rappresentano il suo unico contatto con l’esterno, con un fuoricampo solo suggerito grazie alle voci degli interlocutori di Ivan. Al centro di tutto la coscienza di un padre di famiglia, lavoratore scrupoloso, figlio arrabbiato; le sue scelte, i suoi affetti, una vita come tante, un errore e le sue conseguenze. Alle spalle un regista e sceneggiatore coraggioso, deciso a sperimentare e rischiare; devoto al contenuto e alla potenza del verbo, straordinario veicolo di commozione, turbamento e vita.