Cambiamento climatico e conservazione: la visione anti-convenzionale di Franzen

La lotta al cambiamento climatico mette in crisi i nostri abituali paradigmi di interpretazione e analisi della realtà. Per questo è destinata al fallimento, o forse è già fallita. Non solo: il rischio più grande è che mettere in posizione dominante all’interno del dibattito pubblico questo tema circa il futuro del nostro pianeta costituisca una compensazione psicologica rispetto al dovere della conservazione.

È la tesi diffusa in un articolo comparso sul «The New Yorker» nell’anno 2015, scritto da Jonathan Franzen, romanziere autore di The Connections e Crossroads. Franzen inaugura la propria argomentazione con un aneddoto autobiografico. Racconta di come, qualche mese prima, un evento in particolare gli avesse insegnato come il concetto di conservazione e l’impegno ambientalista non vadano sempre a braccetto.

Qualche migliaio di uccelli

L’episodio riguarda l’edificazione di uno stadio di football a Minneapolis. Quando venne sollevata, da parte delle associazioni animaliste, la questione del rischio per gli uccelli di urtare contro le gigantesche coperture in vetro previste dal progetto, le reazioni furono contrastanti.

Franzen cita in particolare quella di un blogger specializzato in materia aviaria, Jim Williams; in sostanza, Williams si domandava che senso avesse preoccuparsi della sopravvivenza di qualche migliaio di uccelli quando invece il cambiamento climatico avrebbe causato la scomparsa di quasi la metà delle specie aviarie nordamericane entro l’anno 2080.

Un neo-puritanesimo ambientalista

Franzen considera questa istanza l’emblema di un neo-puritanesimo ambientalista, di cui sente di condividere le “stimmate” psicologiche e culturali, ma le cui basi scientifiche sarebbero tutt’altro che solide. Ovviamente Franzen si premura di prendere le distanze da quel negazionismo che caratterizza la retorica di multinazionali e politici statunitensi intenti essenzialmente alla conservazione dei propri interessi economici nella loro integrità. Il suo è piuttosto un pessimismo della ragione, fondato su alcuni semplici assunti.

Nessun problema globale può essere veramente globale

Tali assunti vengono desunti e riprodotti da un saggio che ha adottato programmaticamente, e con largo anticipo rispetto allo stesso Franzen, un approccio critico e anti-convenzionale al problema. Il suo titolo è Reason in a dark time, l’autore il filosofo americano Dale Jamieson. Franzen dichiara di essere stato sollecitato soprattutto dal sottotitolo: Why the Struggle Against Climate Change Failed. And What It Means for Our Future (“Perché la battaglia contro il cambiamento climatico è già persa. E cosa significa per il nostro futuro”). Un primo punto è che i governi più potenti al mondo stanno mettendo in atto solo una versione annacquata e insufficiente di quelle strategie che la scienza prescriverebbe. Per esempio, già oggi l’obiettivo di mantenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto dei 2 gradi centigradi entro fine secolo sembra una chimera.

Al proposito, Franzen definisce “franco” il comportamento tenuto da Barack Obama in occasione della Conferenza ONU sul Cambiamento Climatico di Copenaghen del 2009: a differenza dell’ultimo presidente democratico Bill Clinton, Obama aveva ammesso l’impotenza sua e della sua nazione di fronte al problema. E se il secondo produttore mondiale di gas serra non ha voce in capitolo, “è chiaro che nessun problema globale può essere realmente globale“. Scrive Franzen: dieci anni fa, ci dicemmo che i successivi dieci anni sarebbero stati decisivi per la risoluzione del problema del “climate change“; oggi, abbiamo cambiato idea, autoconvincendoci che invece il decennio determinante sarà il prossimo; ma al tempo stesso abbiamo acquisito la consapevolezza scientifica dell’irreversibilità della situazione, che le azioni che abbiamo intrapreso sono insufficienti.

L’interesse dei cittadini

In secondo luogo, a detta di Jamieson, la convinzione, tipica dei progressisti, secondo cui l’indifferenza verso il problema del clima sarebbe la conseguenza di una degenerazione della democrazia, sarebbe semplicemente fallace. Una buona democrazia, scrive, è quella che mette al primo posto la tutela dell’interesse dei propri cittadini. Esattamente quanto dimostrano gli USA approfittando del gasolio a basso costo e delle logiche del mercato globale.

La sottovalutazione del futuro

L’ultimo punto riguarda la matrice psicologica della scarsa presa che, storicamente, il problema del cambiamento climatico ha avuto presso l’opinione pubblica. Non c’è dubbio che in relazione a questo punto il pensiero di Franzen riveli un po’ di “polvere”, che dimostri gli anni che ha. D’altro canto nel 2015 Greta Thunberg era una giovane ragazza di 12 anni del tutto sconosciuta, e che non aveva ancora cominciato la battaglia con cui avrebbe plasmato la nostra concezione del climate change e delle contromisure da adottare per contrastarlo. Eppure la riflessione di Jamieson, citata da Franzen, conserva intatto il proprio fascino: lo deve alla chiave trans-storica e organicistico-antropologica che la caratterizza.

Infatti, secondo Jamieson è proprio della mente umana la sopravvalutazione del presente a discapito del futuro. Non solo: siamo perfettamente coscienti della nostra irrilevanza, o meglio del fatto che nessuno un giorno potrà addebitarci la responsabilità individuale del disastro, usiamo insomma la percentuale dello 0,000000001 (e la quantità di zeri è incommensurabile, in questo caso) che descrive la nostra incidenza sul fenomeno come un bastione difensivo cui ancorare la nostra irresponsabilità e noncuranza.

Una narrazione ingannevole

Secondo Jamieson e Franzen, saremmo tutti vittime inconsapevoli di una “narrazione” ingannevole e ad alto tasso di retorica. Innanzitutto, essa riguarda la convinzione secondo cui le fonti energetiche alternative, rinnovabili, siano destinate a rimpiazzare quelle tradizionali, non rinnovabili, quando invece le stanno affiancando. Infine, quella secondo la quale l’umanità starebbe attraversando una fase senza precedenti della sua storia, e si starebbe infliggendo una sorta di autodistruzione.

In realtà, non solo l’uomo, ma anche gli esseri animali, hanno sperimentato fasi analoghe e le hanno brillantemente superate grazie a una sorprendente capacità di adattamento. E l’unica forma di autodistruzione mai concepita e creata dall’uomo sarebbe la bomba atomica.

La scelta della conservazione

Ma allora, se il cambiamento climatico è cosa fatta, e non si può tornare indietro, l’unica scelta possibile è l’indifferenza, o l’inazione? Tutt’altro. Secondo Franzen, si tratta solamente di cambiare prospettiva, e conseguentemente il raggio d’azione del proprio intervento sulla realtà. Di ragionare su concetti come quelli di sostenibilità, rigenerazione, conservazione del patrimonio ecologico e della biodiversità. Il paragone scelto coinvolge l’ambito medico: di fronte a un malato terminale, quale è la Terra, occorre scegliere fra un approccio aggressivo e una terapia conservativa, che limiti i danni.

Scegliere la sostenibilità e la conservazione significa optare per la seconda soluzione, che offre anche il vantaggio che se un giorno dovesse emergere una miracolosa cura alla malattia, la Terra non sarebbe troppo “compromessa” per poterla sperimentare. D’altronde, secondo Franzen, “solo la consapevolezza della natura come somma di habitat specifici e minacciati, anziché come ‘cosa’ astratta che sta ‘morendo’, può consentirci di impedire che il mondo venga denaturalizzato“. Limitare i danni non sempre significa non avere coraggio. Può essere sinonimo di realismo e concretezza.

FONTI

«The New Yorker»

D. Jamieson, Reason in a dark time, Oxford University Press, 2017

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