Il pizzo esiste ancora?

Era l’agosto del 1991 quando fu assassinato il pioniere della lotta al racket. In via Vittorio Alfieri, nell’estate palermitana di 31 anni fa, veniva ucciso Libero Grassi. Fu uno dei primi imprenditori a ribellarsi e a denunciare la richiesta del pizzo da parte di Cosa Nostra.

L’uccisione di Libero Grassi

Erano le sette e mezza del mattino quando Libero Grassi venne ucciso. Si stava dirigendo al lavoro come tutti i giorni quando venne freddato a colpi di pistola. Era dagli anni ’80 che portava avanti la sua lotta, quando iniziarono le prime richieste da parte della mafia siciliana a pagare il pizzo: la quota che i commercianti siciliani sono tenuti a pagare con frequenza settimanale o mensile alla criminalità organizzata.

Grassi rifiutò di cedere ai compromessi e di rimando alcuni suoi dipendenti subirono una rapina. Tuttavia gli estorsori vennero arrestati. Libero Grassi possedeva una tra le aziende più importanti di biancheria intima in Italia. Decise quindi di pubblicare sul «Giornale di Sicilia» una lettera, in cui disse di aver richiesto la protezione della polizia per tutelare la sua attività. Nella lettera spiegò le motivazioni che lo portarono a rifiutare di pagare le 50 milioni di lire richiesti da Cosa Nostra.

Qualche mese prima di venire ucciso, Grassi venne invitato come ospite alla trasmissione Samarcanda, condotta da Michele Santoro su Rai Tre. Quella puntata lo rese celebre in tutta Italia per essersi opposto ai tentativi di estorsione della mafia, ma pochi mesi dopo morì.

Nel 2022

Nel 2022, trentuno anni dopo la morte di chi ha sacrificato la propria vita per la libertà dall’oppressione, a Palermo, esattamente come allora, si paga il pizzo, o la “messa a posto”. In Sicilia infatti, se si vuole lavorare in città bisogna “mettersi a posto”, accordandosi con Cosa Nostra. Oggi però, come è successo allora, c’è chi segue l’esempio di Libero Grassi e dunque denuncia.

Questo è quello che hanno fatto i commercianti di via Maqueda, la via che collega la stazione centrale al Teatro Massimo di Palermo. Nel 2019 è stata emessa dal tribunale di Palermo la condanna per otto persone denunciate per “estorsione continuata e aggravata dal metodo mafioso”, dai commercianti nel 2016.

Secondo la procura

Ogni anno, solo nella città di Palermo, sono più di 300 gli arresti che avvengono con la condanna di “estorsione aggravata”. Significa che qualcosa piano piano sta cambiando.

Secondo Salvatore De Luca, il procuratore del distretto antimafia di Palermo

A Palermo l’attività estorsiva è tipica territoriale di Cosa Nostra. Con una duplice funzione, quella di provvedere a rifornire le casse dei mandamenti mafiosi e di controllare il territorio. All’interno di Cosa Nostra bisogna distinguere i profitti derivati dalle attività dell’organizzazione criminale da quelle dei singoli associati. Le attività dei singoli, lecite o illecite, non vanno a finire nelle casse di Cosa Nostra.

De Luca continua dicendo

Ecco dunque che la “messa a posto”, sebbene non sia l’attività più lucrosa, diventa fondamentale all’organizzazione criminale per far fronte ai costi dei processi e aiutare le famiglie dei detenuti. Fondamentale per mantenere la coesione di Cosa Nostra. Resta però da sottolineare come la “messa a posto” sia anche un cavallo di Troia per l’organizzazione perché, dal punto di vista statistico, il maggior numero di arresti effettuati ogni anno è proprio per estorsione aggravata. Cosa Nostra lo sa: prima di estorcere soldi studia il commerciante e se questo risulta essere un soggetto capace di denunciare, lo si lascia in pace. Senza contare che la pressione dello Stato ha messo sulla difensiva i mafiosi. Con cauto ottimismo penso che siamo nella fase più alta ed efficiente nel contrasto a Cosa Nostra.

Il pizzo oggi

Nel 2021, secondo i dati registrati, nella provincia di Palermo nell’arco di tempo che va da gennaio a ottobre sono state accertate qualcosa come 220 estorsioni. Molto poche però sono state denunciate. Un po’ per paura, un po’ per convenienza, perché c’è un interesse nell’ottenere un appoggio dalla mafia o ancora per abitudine. Il comandante provinciale dei carabinieri, Giuseppe De Liso, ha confermato di aver seguito 115 casi di estorsione di cui solo sette sono stati denunciati. Chi trova il coraggio di denunciare rimane una minoranza. Talvolta, anche dopo l’intervento delle forze dell’ordine, i commercianti negano di aver pagato una somma di denaro a Cosa Nostra.

Analizzando il fenomeno culturale, per molti pagare il pizzo è come saldare un importo dovuto alla burocrazia che dà l’effettiva possibilità di operare sul mercato. Molti commercianti continuano a pagare la “messa a posto” all’organizzazione criminale come se fosse una società che fornisce servizi, come se si trattasse di un abbonamento.

È importante capire che le situazioni che spingono al pagamento del pizzo cambiano, così come anche le personalità delle persone a cui si presenta questa situazione. Chi paga non sempre è un vigliacco o è terrorizzato dalla situazione, a volte semplicemente entra in gioco il fattore psicologico scaturito dal contesto sociale in cui si vive.

Se una persona vive nella “normalità” che il pizzo vada pagato, per lei sarà difficile vedere questo come un gesto imposto dalla criminalità. Altresì, sarà più semplice che una richiesta di estorsione venga denunciata da una persona che, per esempio, si trasferisce a Palermo per avviare un’attività da un altro luogo.

Una società di servizi

E sono proprio queste le affermazioni fatte da Salvo Caradonna, socio fondatore e avvocato dell’associazione Addiopizzo. Caradonna infatti dice che “se restiamo ai fatti bisogna dire che non c’è solo chi paga il pizzo perché ha paura, ma anche chi lo fa perché ha interesse a pagarlo, perché così si assicura un servizio da parte dell’organizzazione criminale, oppure perché semplicemente vive e lavora in quella zona da trent’anni e così è stato abituato a fare“.

Sono diversi gli esempi che si possono fare per far capire l’influenza psicologica che ha questo genere di attività criminale nelle menti degli imprenditori: un commerciante, per esempio, espresse il suo consenso nel pagare la somma di denaro richiesta dalla malavita, a patto però di non essere citato nel “libro mastro”, il libro in cui vengono riportati i nomi dei commercianti che “usufruiscono del servizio mafioso”.

Oppure ancora un’ambulante fuori dal concerto di un cantante neomelodico chiese al suo estorsore di evitare che il suo concorrente fosse presente, ma anche lui pagava il pizzo. Un altro commerciante addirittura suggerì cosa dire al suo aguzzino nel caso in cui fosse stato trovato fuori dal negozio con tutti quei soldi nelle tasche.

Paura e debito

Talvolta capita che alcuni dei commercianti che pagano il pizzo si affidino agli estorsori per recuperare un credito da un’altra persona, per impedire che in quella stessa zona venga aperto un negozio concorrente o per altri “favori” di questo tipo.

C’è anche chi dice che vivendo nella zona da molti anni paga il pizzo perché così è abituato a fare, o ancora chi paga il pizzo a uno di famiglia perché l’estorsore è suo parente. Secondo molti non si tratta di paura ma di saldare un debito nei confronti di chi fornisce un servizio.

 

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