Giulia Lenoci è una ragazza di 21 anni, ex studentessa di lettere moderne e da qualche mese impegnata al 100% nella sua crescita personale in ambito lavorativo e nei progetti di volontariato. Già da due anni è entrata nell’associazioni delle Brigate volontarie per l’emergenza, nata all’inizio della pandemia, che si è occupata soprattutto dei bisogni della popolazione italiana durante i mesi più duri di lockdown. Con l’inizio della crisi umanitaria connessa allo scoppio della guerra tra Ucraina e Russia, Brigate volontarie per l’emergenza ha partecipato attivamente nell’assistenza dei profughi lungo i corridoi umanitari grazie alle energie dei volontari partiti verso i territori polacchi di Przemysl, Medyka e Korczowa.
Sul confine tra Ucraina e Polonia il sole sorge presto. E con le prime luci dell’alba le richieste di aiuto e assistenza cominciano ad alzarsi vicino alle strutture di accoglienza allestite. Giulia si deve preparare in fretta, esce dal camper che per una settimana le farà da alloggio, saluta i primi arrivati. Un’altra giornata di guerra sta per cominciare.
Come descriveresti la tua routine quotidiana in Polonia?
Siamo partiti dall’Italia con un furgone e un camper. Dormivamo nei parcheggi dei centri di accoglienza in modo da poter essere subito sul posto non appena ce ne fosse stato bisogno. E di bisogno ce n’era sempre parecchio. Il trambusto che accompagnava i nuovi arrivati ci svegliava molto presto la mattina, alle prime luci dell’alba. Appena svegli dovevamo registrarci come volontari presso le strutture preposte al soccorso degli sfollati e subito dopo chiedevamo agli organizzatori come potessimo renderci utili. In diverse occasioni abbiamo smistato il materiale donato al centro di accoglienza, altre volte abbiamo aiutato a direzionare i flussi di persone verso i pullman giusti, ma molto spesso la richiesta era semplicemente di passare qualche ora con i bambini e farli giocare e divertire, per quanto possibile.
Mentre io ero lì sono arrivati pure alcuni feriti, anche se fortunatamente non molti. Sono stati immediatamente portati nelle strutture mediche e soccorsi. Devo dire che da questo punto di vista la macchina organizzativa del corridoio polacco è stata impeccabile.
Aggiungo solo che la mia associazione si è occupata anche del trasporto e della locazione di una famiglia di profughi qui in Italia. Tutt’ora sto seguendo queste persone nel loro inserimento nel nostro Paese, il legame che ho creato con loro è davvero molto forte.
Il disastro umanitario che questa nuova guerra ha causato è immane e merita tutto il nostro rispetto. Ma è stato più volte sottolineato nelle ultime settimane come il conflitto tra Russia e Ucraina non sia l’unico in atto in questo momento e che troppe differenze sono state fatte tra i profughi ucraini e coloro che scappano da altre guerre. Cosa ne pensi? Ci sono stati dei casi di discriminazione tra i profughi sulla base del colore della pelle?
Purtroppo sì, ci sono stati. In particolare ricordo il caso di questo ragazzo mediorientale che si era trasferito in Ucraina per scappare da un conflitto nel suo Paese e che, esattamente come tanti altri, si è ritrovato costretto – di nuovo – ad abbandonare i suoi alloggi per mettersi in salvo. Per iscriversi all’università aveva lasciato il passaporto nella segreteria del suo istituto e non aveva potuto recuperarlo per via dei bombardamenti, così si è presentato al confine con la Polonia solo con la sua carta dello studente. È riuscito ugualmente a passare la frontiera, ma ha avuto moltissime difficoltà a essere accettato in Polonia come profugo in fuga dall’Ucraina.
In generale nei Paesi confinanti con l’Ucraina c’è tantissimo razzismo: la solidarietà che è stata dimostrata agli ucraini, in quanto riconosciuti come un popolo fratello, non trova corrispondenza nel trattamento che ricevono profughi provenienti da altre nazioni o che anche provengono da Kiev, ma possiedono un colore diverso della pelle. Queste persone sono straniere due volte. Ci sono stati diversi episodi di violenza, non necessariamente fisica, ma psicologica, nei confronti di profughi non nati in Ucraina, che venivano spinti ad abbandonare in fretta e furia i centri di accoglienza senza che venisse dato loro il tempo necessario per riposare e riprendersi. Per alcuni profughi effettivamente non c’è stata accoglienza vera.
Quello che io auspico è che la sensibilità al dramma della migrazione, che questa guerra ci ha insegnato ad avere, si rifletta nei prossimi mesi anche su quei flussi migratori che per decenni abbiamo ignorato e denigrato. La speranza è che alla fine si possa trarre una lezione di umanità da questa tragedia e che gli insegnamenti siano messi in pratica anche in altre situazioni.
Il Covid ha sicuramente perso terreno nell’attenzione mediatica e in generale nella quotidianità delle persone, anche in Italia. Certo, però, non possiamo dimenticare che il virus circola ancora. Nei trasferimenti di persone a cui hai assistito com’è l’attenzione rispetto a questo tema? I profughi sono in possesso di mascherine? Vengono eseguiti tamponi?
Lì la situazione di contenimento Covid è davvero ai minimi rispetto a come siamo abituati in Italia, non solo lungo i corridoi umanitari, ma in generale nella quotidianità dei polacchi e degli ucraini. Quando siamo arrivati in Italia con le persone che stavamo accompagnando abbiamo scoperto che uno dei bambini era positivo al Covid e la famiglia è stata temporaneamente trasferita in un hotel per portare a termine la quarantena. Quando sei così vicino alla guerra un po’ ti dimentichi che il Covid esiste, ti preoccupi decisamente meno dei contagi. Tornare in Italia ed essere inseriti nuovamente nell’iter che ormai quasi tutti conoscono, fatto di tamponi, quarantene e isolamento mi ha un po’ stranita, lo devo ammettere.
Al di là del Covid, comunque, i corridoi umanitari non sono fatti sicuramente per evitare i contagi di qualsiasi malattia, anche di un banale raffreddore. Ogni giorno passano per i centri di accoglienza tantissime persone, che vengono spesso stipate in stanzoni senza alcun distanziamento. Non c’è molta attenzione alla prevenzione del contagio, sembra non sia quella la priorità insomma.
Hai percepito dell’odio verso i russi da parte dei profughi ucraini? C’è un certo patriottismo diffuso tra chi scappa dall’Ucraina?
No, direi che non ho percepito alcun sentimento di odio. Una delle persone che abbiamo accompagnato in Italia aveva i documenti russi, così come molti altri profughi che abbiamo accolto. Non c’è un sentimento di ostilità, sono tutti colpiti e scossi dalla guerra e nessuno vorrebbe avere a che fare con questo tipo di schieramenti. Anche a livello militare quello che ho percepito è in generale una gran voglia di finire questo inutile conflitto, nessuno si auspicherebbe di dover imbracciare un fucile o di dover vedere un figlio, un marito, un fratello sparare contro altri uomini.
Ovviamente l’Ucraina è il Paese invaso e questo ha risvegliato un certo patriottismo, la voglia di proteggere la propria patria e magari questo ha spinto qualcuno che di per sé sarebbe contrario alla violenza a farsi parte attiva in questa guerra. Dall’altra parte mi sono giunte storie di tanti ragazzi che magari non percepiscono lo stesso attaccamento al proprio Paese che vivono la chiamata alle armi come un obbligo doloroso. È qualcosa che secondo me accadrebbe anche in Italia: i più giovani oggi forse si sentono meno coinvolti nel sentimento di appartenenza a una nazione.
Che cosa ti porti dentro dopo questa esperienza?
È stata un’esperienza molto intensa, sia in positivo che in negativo. Le emozioni durante quella settimana di volontariato sono state moltissime, contrastanti a volte, difficili da spiegare. Sicuramente posso dire di aver sempre provato grande lucidità e grande chiarezza rispetto a quali dovevano essere i miei compiti. In altre situazioni di volontariato non mi è capitato di sentirmi altrettanto concentrata e coinvolta mentalmente in quello che mi era richiesto fare. Può sembrare un po’ paradossale forse, perché eravamo veramente inseriti in un conteso caotico, ma la puntualità e la chiarezza con cui agivamo mi ha sorpresa lungo tutta l’esperienza e mi è rimasta molto impressa.
Ciò che mi ha colpita di più a livello personale sono stati sicuramente i bambini. In una situazione disastrosa come una migrazione obbligata dalla guerra loro sono sempre stati capaci di tirare fuori una risata e alleggerire anche il nostro lavoro che in alcuni momenti era davvero pesante. Anche nel viaggio di ritorno, quando ho accompagnato in Italia la famiglia ucraina (senza il padre, gli uomini non possono lasciare i confini del Paese in questo momento), i due bambini che erano con me hanno davvero portato una nota di gioia.
Oltre a questo mi sento di ricordare la commozione che mi ha causato il vedere tutta la solidarietà che si è concretizzata intorno ai profughi ucraini. Ho parlato con persone dal Messico, dalla Svezia, dalla Germania: c’erano volontari di qualsiasi nazionalità. Questa cosa mi ha emozionata e molto ispirata.
FONTI
Intervista diretta a Giulia Lenoci
CREDITI
Tutte le immagini sono state fornite a titolo gratuito da Giulia Lenoci e scattate da lei