“Drive my car” e la potenza della parola

È sera, una donna inizia a raccontare a suo marito una storia: mentre intorno regna il silenzio, dalla finestra si intravedono le luci di una città appena sveglia.

Adattamento cinematografico dell’omonimo racconto di Haruki Murakami, il lungometraggio del regista e sceneggiatore giapponese Ryūsuke Hamaguchi si può considerare come un lungo racconto, fatto di parole, sguardi, ma soprattutto rumorosi silenzi. Vincitore del premio Oscar per il Miglior film straniero di quest’anno, è da sempre stato uno dei favoriti. La pellicola, già presentata in concorso al 74º Festival di Cannes, ha ricevuto molti apprezzamenti dalla critica per quanto riguarda la sceneggiatura, ma in Italia è passata parecchio inosservata al momento dell’uscita nelle sale.

Nuovo cinema giapponese

Yusuke è un attore di teatro che, a seguito della perdita della moglie, trova la forza di reagire mettendo in scena lo Zio Vania di Čechov. Da quel momento avrà modo di conoscere diverse persone tutte accumunate dal bisogno di sentirsi vivi, comunicare e trovare quindi un posto nel mondo.

Le parole assumono un peso fondamentale nell’opera di Hamaguchi, che, non a caso, ha vinto il Prix du scénario al Festival di Cannes di quest’anno. Dieci anni prima il regista realizza un documentario dal titolo The sound of the waves in cui raccoglie le interviste dei sopravvissuti allo tsunami giapponese del 2011. Un insieme di parole, racconti e ricordi che diventano quasi una seduta terapeutica, in quanto, ripercorrendo le proprie emozioni, in qualche modo se ne riesce a trarre beneficio in alcuni casi addirittura esorcizzando il dolore.

Così fanno i protagonisti di Drive my car, anime tormentate e sole che per volere del destino si sono incontrate. L’automobile, una Saab 900 rossa fiammante, diventa palcoscenico delle vite dei personaggi stessi che si ritrovano al suo interno per confessarsi, confrontarsi e confortarsi vicendevolmente.

 In Drive My Car ero in difficoltà perché nell’abitacolo di un’automobile non ci si muove e nelle prove di lettura di uno spettacolo è difficile cogliere un’intonazione o un’emozione. Proprio per questo, però, ho cercato di cogliere con la cinepresa il movimento che nasce nell’intimo di ciascuno, affidandolo alle parole, alla voce o al corpo dei miei interpreti.

Le loro vite si intrecciano inevitabilmente creando dei legami profondi che mai avrebbero immaginato. Questa terapia di gruppo diviene un modo per scoprire sé stessi, ogni personaggio prende forma attraverso i dialoghi e col passare del tempo lo spettatore riesce a mettere insieme i pezzi di un puzzle che sembra infinito.

Due inizi, un’unica storia

Il film può essere diviso in due parti: prima e dopo la morte della moglie Oto, famosa drammaturga. I titoli di testa infatti compaiono sullo schermo solo dopo 40 minuti dall’inizio della storia, in un momento che segna profondamente la vita del protagonista. Da qui un nuovo inizio, o forse una nuova vita, raccontata attraverso una lunga analisi introspettiva e una dolorosa elaborazione del lutto, tema centrale della pellicola.

Il tempo del film corrisponde quasi sempre al tempo dell’azione, e questo comporta un’approfondita analisi delle psicologie dei personaggi. Senza tagli o giochi di montaggio il discorso assomiglia più ad un flusso di coscienza in cui lo spettatore riesce ad immedesimarsi ed entrare quindi facilmente in empatia con i protagonisti.

Il tema dell’incomunicabilità

Il regista è pienamente consapevole dell’importanza dei dialoghi all’interno di un prodotto cinematografico. Non a caso, i suoi punti di riferimento sono Éric Rohmer, famoso per i suoi “film chiacchieroni” in cui i personaggi scambiano per ore  riflessioni passando dall’arte alla filosofia, dalla psicologia alla politica, senza la presenza di accompagnamento musicale. Parole che diventano melodia. Ma anche Roberto Rossellini con il suo neorealismo e il magistrale Yasujirō Ozu, entrambi rivoluzionari capostipiti del cinema del dopoguerra, influenzano esplicitamente l’immaginario filmico del giovane regista giapponese.

Nel film di Hamaguchi gli attori parlano diverse lingue tra cui il mandarino, il coreano, il giapponese, l’inglese e persino il linguaggio dei segni. Questo inizialmente rende difficile la comprensione, creando problemi di incomunicabilità, ma le barriere linguistiche vengono lentamente superate attraverso la forza dei gesti e delle emozioni che i personaggi riescono a trasmettere sia nella vita vera che a teatro.

Non solo parole

Momenti di altissima tensione drammaturgica si creano durante le lunghe sequenze in cui il linguaggio dei segni rompe l’inevitabile, ma solo apparente, assenza di suoni, dando vita ad una tensione emotiva che viene trasmessa agli spettatori in sala costretti anch’essi al silenzio.

Le parole che fino a quel momento avevano permeato la pellicola in questi minuti diventano superflue assumendo un’importanza secondaria. Ciò che conta sono le emozioni, i ricordi e i pensieri che spesso sopprimiamo per non doverli affrontare. Il silenzio diviene così parte integrante della colonna sonora (con le intime musiche della cantautrice giapponese Eiko Ishibashi), andando a sottolineare lo stato d’animo dei personaggi. Anime tormentate che cercano solamente un riscatto per poter uscire da quel vortice di emozioni che li sopprime.

In Drive My Car ci sono due tipi di silenzio: uno legato al linguaggio dei segni, e dunque in grado di comunicare, e un altro che segna il rapporto fra Kafuku e Misaki. Le loro conversazioni si fanno sempre più rade mano a mano che si conoscono e nel finale, durante il lungo viaggio verso nord, arrivano a capirsi quasi senza parlare. È il loro silenzio a indicare la profondità del loro legame e in qualche modo a farsi anch’esso una forma di comunicazione.

La pièce teatrale diventa mezzo per scavare a fondo nei sentimenti degli attori, che vengono spogliati da tutte le loro insicurezze e sono messi davanti alla crudeltà della vita. Čechov è terrificante, quando dici le sue battute tira fuori il vero di te.

 

FONTI

it.wikipedia.org

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